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Vaticano, dove il “giusto processo” è impossibile. Quando il diritto si scontra con il potere assoluto

Una delle caratteristiche di quello che è passato alle cronache come “il processo Becciu” (ma che in realtà coinvolge dieci imputati, tutti cittadini italiani) è che il tribunale vaticano ha consentito il patrocinio difensivo ad avvocati del foro italiano. Non è stata la prima volta perché era successo anche per il processo ad alcuni ex amministratori dello IOR, ma la novità ha riguardato la portata e complessità del giudizio in questione. Il Vaticano aveva deciso di garantire la pienezza del diritto di difesa consentendo il patrocinio di legali “esterni”. È capitato dunque ad una ventina di avvocati italiani, fedeli cultori della Rule of law e del principio di legalità, di misurarsi per oltre due anni con regole e norme di un codice particolare e soprattutto con gli istituti di un ordinamento atipico di derivazione giusnaturalista.
Il codice canonico e i codici ordinari del Vaticano
Il Vaticano è costituito da due entità distinte, ancorché rappresentate e governate da un’unica guida politica e spirituale: la Santa Sede, faro e rappresentanza della comunità cattolica mondiale, e lo Stato della Città del Vaticano, fazzoletto territoriale nato a seguito dell’accordo dei Patti lateranensi del 1929 per garantire, anche fisicamente, l’indipendenza effettiva della Chiesa, entrambe con proprie norme e codici. Il codice canonico racchiude il complesso di norme ispirate a princìpi religiosi che regolano l’amministrazione delle istituzioni ecclesiastiche e dei suoi rappresentanti, i codici ordinari costituiscono il corpo delle leggi civili e penali che si applicano all’interno del minuscolo Stato. Il Codice penale è un derivato dell’ultimo codice dello Stato liberale, varato dal guardasigilli Zanardelli nel 1890 ed ancora in vigore al tempo dei Patti lateranensi prima di essere sostituito da quello fascista, ed ha subìto continue modifiche ed aggiornamenti particolarmente intensificatisi nel pontificato di Papa Francesco.
La Costituzione vaticana e le incomprensioni
Il comune denominatore di tutta la legislazione dello Stato Vaticano è costituito però dai princìpi del diritto canonico, la Costituzione vaticana, chiave di interpretazione obbligata di tutte le norme positive. Tale peculiarità ha costituito la fonte di maggiore difficoltà ed incomprensione tra le diverse “anime” legali che si sono confrontate nel processo, come evidenziato dalla vicenda dei rescripta di cui scrive Luigi Panella. È da augurarsi non sia sino alla fine un dialogo tra sordi: dubbi e perplessità avanzati dai difensori hanno trovato riscontro nelle posizioni di illustri canonisti come Geraldina Boni e Paolo Cavana. Una legislazione “ad personam” applicata “in malam partem” solo agli imputati di un unico processo è difficilmente compatibile anche con i princìpi di uguaglianza del “diritto divino” invocati dal Promotore di giustizia e con la asserita incontestabilità dell’operato del Pontefice (Prima Sedes a nemine iudicatur) sì da autorizzare dubbi sulla sua effettiva efficacia anche presso la dottrina più accreditata, che si è spinta ad ipotizzare una sorta di vera e propria “inesistenza” degli atti. È legittimo che il giurista laico si chieda se possano convivere i meccanismi del giusto processo all’interno di un ordinamento che non contempli la divisione dei poteri ma sia organizzato sul modello di monarchia assoluta.
L’estrema ingiustizia non è legge
L’esperienza mostra i rischi legati a possibili se non inevitabili interferenze sugli esiti processuali delle finalità politiche dettate dal governo dell’istituzione (si pensi all’esigenza pur nobile di moralizzare e bonificare gli apparati amministrativi). E tuttavia sbaglierebbe chi volesse ridurre il confronto culturale ad un puro conflitto tra vecchio e nuovo, tra autoritarismo e liberalismo. “L’estrema ingiustizia non è legge”, diceva un secolo fa Gustav Radbruch, a sottolineare l’esigenza che diritto e morale convivano. Il punto è come.
I due volti della Chiesa
Forse la risposta sta nell’invito di Cristo a separare gli strumenti di Cesare dalle finalità divine. L’art. 22 della convenzione lateranense stabilisce la facoltà della Santa Sede di delegare all’autorità giudiziaria italiana l’accertamento dei reati ancorché commessi nel suo territorio. Peraltro, come si ricorderà, i due processi per il più grave crimine ai danni della Santa Sede, il tentato omicidio di Giovanni Paolo II, furono celebrati presso la corte di assise di Roma, perché piazza S. Pietro rientra nella giurisdizione italiana. E degli esiti nessuno si è mai lamentato anche se i presunti mandanti dell’infame crimine furono tutti assolti. Del resto, il processo penale come “immoralità necessaria” (Massimo Nobili) mal si accorda col regno di Dio. E come il nuovo Papa ha ricordato, se la Chiesa ha due volti, quello della missione e quello istituzionale, è al primo che bisogna guardare ed in cui rispecchiarsi.
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