Dieci imputati e oltre quaranta capi d’accusa: dalla truffa alla corruzione, al peculato fino all’estorsione: il cuore del “processo del secolo” che ha visto condannato il cardinale Angelo Becciu a cinque anni e mezzo di reclusione dal Tribunale vaticano è però senza dubbio l’acquisto, da parte della Segreteria di Stato (SDS), di una proprietà immobiliare nel cuore di Londra (60, Sloane Avenue), sul quale riteniamo utile concentrare questa nostra sintesi.

Il credito

Quell’acquisto costituiva in realtà l’epilogo di un investimento finanziario più articolato: nel 2013 la SDS, ponendo a garanzia le proprie gestioni patrimoniali, ottiene da due banche svizzere un’apertura di credito pari a circa 200 milioni di dollari, disponendo che le medesime banche, tra cui la sua storica fiduciaria Credit Suisse, investano la somma nei fondi Athena del finanziere Raffaele Mincione. L’idea iniziale della SDS era di utilizzare un fondo specializzato per finanziare un’attività di trivellazione petrolifera in Angola, Paese nel quale il card. Becciu aveva servito da Nunzio Apostolico. Scartato per eccessiva rischiosità il progetto angolano, viene modificata la strategia di investimento: 50% in titoli e 50% in quote di un fondo proprietario dell’immobile londinese, sul quale il gruppo Mincione (WRM) sta già lavorando ad un ambizioso progetto di sviluppo residenziale.

Il secondo capito, la SDS esce dall’investimento

Nel 2018, tuttavia, la SDS decide di acquisire l’intero stabile, liquidando l’altro quotista e gestore del fondo WRM con un conguaglio di 40M sterline oltre ai titoli. A questo punto si apre però un secondo capitolo. Per “uscire” dall’investimento, infatti, la SDS utilizza come intermediario il broker Gianluigi Torzi, che le mette a disposizione un veicolo societario (GUTT) del quale però il broker mantiene per sé 1000 azioni con diritto di voto, esigendo poi una buonuscita milionaria per la loro cessione quando la SDS reclama il Palazzo. Divenuto unico e diretto proprietario, mentre la vicenda è ormai agli onori delle cronache mondiali, il Vaticano rinuncia ai permessi di costruire e al relativo progetto residenziale; a metà del 2022, vende infine l’immobile “as is” a Bain Capital per 186 milioni di sterline.

L’accusa

Il Promotore di Giustizia vaticano accusa Mincione e il consulente di Credit Suisse Crasso di truffa per i valori attribuiti all’immobile e al suo progetto di sviluppo, che ritiene “gonfiati”. Il Sostituto della SDS card. Becciu e il funzionario interno Tirabassi, insieme con Crasso e il finanziere Mincione, vengono inoltre chiamati a rispondere, in concorso tra loro, di peculato. Il Promotore, infatti, sostiene che le somme investite nei fondi WRM rinvenissero dall’Obolo di San Pietro (e da rimesse dello IOR) e fossero dunque vincolate a fini di carità o al mantenimento della Curia, senza possibilità di utilizzi “speculativi”. Del pari, l’Accusa sostiene che non la SDS, ma solo l’APSA (Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica) potesse eventualmente disporre del patrimonio della Santa Sede. A Torzi verrà infine contestato di aver prima truffato e poi estorto 15 milioni per consentire alla SDS di gestire autonomamente l’immobile svincolandolo dalla GUTT. L’accusa (estorsione) viene estesa a Tirabassi e Crasso, ritenuti complici di Torzi.

Le norme ad causam

Per questo solo procedimento, Papa Francesco riconosce al Promotore di Giustizia la facoltà di “adottare direttamente”, in deroga alle vigenti disposizioni, qualunque tipo di provvedimento “anche di natura cautelare”. Sulla base di tale deroga il Promotore dispone l’arresto di due indagati, eseguendone poi effettivamente solo uno (Torzi). Il Papa inoltre autorizza il Promotore, solo per questa indagine, a disporre intercettazioni e utilizzare strumenti investigativi non previsti dal codice, ad individuare “le modalità più adeguate” per acquisire e utilizzare le prove raccolte, con termini “prorogabili a seconda delle esigenze istruttorie”. Oltre ai quattro Rescripta, all’alba del processo, il Santo Padre modifica ad hoc anche la legge sull’ordinamento giudiziario, consentendo che, per la prima volta nella storia, un cardinale, Angelo Becciu, venga giudicato da un Tribunale totalmente composto da laici.

LA POSIZIONE DI MONS. PERLASCA

Pur direttamente coinvolto in ogni fase dell’investimento, con pareri e atti autorizzativi a sua firma, il Promotore Vaticano decide di chiedere l’archiviazione del Capo Ufficio amministrativo della SDS, mons. Alberto Perlasca, che da indagato diventa così il “teste della Corona”. Perlasca punta il dito contro il suo superiore gerarchico card. Becciu e il suo sottoposto, il minutante Fabrizio Tirabassi, ma accusa anche, a vario titolo, il consulente esterno Crasso, il finanziere Mincione, il broker Torzi e i collaboratori di quest’ultimo. Proprio durante le udienze in cui viene ascoltato, si scopre però un retroscena inquietante, la cui portata attende ancora oggi di essere chiarita: le dichiarazioni del monsignore risultano infatti “ispirate” da Francesca Chaouqui, già stretta collaboratrice del Papa ai tempi di Cosea (la Commissione di riforma delle finanze vaticane), poi arrestata e condannata in Vaticano nell’inchiesta nota come Vatileaks 2. Durante le indagini, infatti, la Chaouqui rivela a Genoveffa Ciferri, amica di mons. Perlasca, informazioni particolareggiate sull’inchiesta in corso e veicola quelle che a suo dire sono richieste provenienti direttamente dagli organi inquirenti. Migliaia di messaggi resi noti dalla Ciferri e depositati in un ricorso all’ONU da Mincione; questi atti risultano ancora formalmente secretati in Vaticano dal Promotore ed aperto un nuovo fascicolo che ancora oggi, a tre anni di distanza, giace in indagini. Spunta di recente anche un audio che proverebbe i rapporti, aventi ad oggetto il processo, tra Chaouqui e il Commissario De Santis della Gendarmeria.

LA SENTENZA

Dopo oltre due anni di istruttoria e ben 86 udienze, il Tribunale presieduto da Giuseppe Pignatone, pur pronunciando diverse assoluzioni (su tutte quella per la presunta truffa legata al valore del Palazzo) dichiara gli imputati colpevoli, tra l’altro, di peculato e autoriciclaggio, disponendo nei loro confronti 200 milioni di dollari di confisca e altrettanti di risarcimento in favore di APSA e SDS. “Nessuno degli imputati potrà mai dolersi di essere stato condannato sulla base delle dichiarazioni di mons. Perlasca”, scrive il Tribunale, definendo il teste poco convincente e contraddittorio e liquidando la secretazione dei messaggi come una scelta “insindacabile” del Promotore.

LA PRESUNTA TRUFFA

Palesemente scorretti o assolutamente in linea coi valori di mercato? Accusa, parti civili e difese si scontrano per tutto il dibattimento sui valori finanziari (c.d. NAV) attribuiti al fondo proprietario dell’immobile. Il Tribunale ritiene però che la truffa prospettata dall’accusa non sia configurabile per ragioni giuridiche, prima ancora che legate al metodo di calcolo. Una volta sottoscritto un fondo, infatti, per tutta la sua durata (lock up period) le decisioni sul denaro investito competono al solo gestore, mentre all’investitore resta una legittima aspettativa di guadagno. Non ha dunque senso presupporre un’induzione in errore dell’investitore da parte del gestore per compiere un atto che spetta a quest’ultimo e non al primo. Questa impostazione consente al Tribunale di non statuire sulla correttezza sostanziale delle valutazioni estimative, anche se riconosce che esse erano avvenute usando un parametro consentito (investment value), ancorché favorevole al gestore. Risulta in qualche modo sposata la tesi della difesa che quello della SDS non fosse, banalmente, l’acquisto pro quota di un palazzo, bensì di un progetto di sviluppo immobiliare. D’altro canto, la correttezza delle valutazioni applicate all’investimento è stata confermata da una recente sentenza dell’Alta Corte Inglese, adita da Mincione, ancorché la stessa Corte attribuisca al gestore un deficit informativo sui criteri utilizzati. Torzi viene invece condannato per l’altra truffa, quella relativa al veicolo GUTT. Viene altresì condannato per estorsione insieme al minutante Tirabassi. Assolto invece Crasso.

IL PECULATO

Il Tribunale confuta anzitutto la tesi del Promotore – di ottima resa mediatica – secondo cui la SDS avrebbe investito l’Obolo di San Pietro, cioè le donazioni caritatevoli al Santo Padre: le risorse rinvenivano infatti da un finanziamento bancario e oltretutto le riserve della SDS risultavano costituite in maniera stratificata nel tempo. Né tantomeno pone in dubbio il potere della SDS di disporre del patrimonio affidatole. Ma c’è un ma. Sussisterebbe infatti il peculato per “uso illecito” dei fondi, in quanto il can. 1284 del codice canonico (fonte del diritto vaticano) prescrive agli amministratori di beni ecclesiastici di “attendere alle loro funzioni con la diligenza di un buon padre di famiglia”: disposizione, questa, che il Tribunale ritiene di per sé ontologicamente ostativa ad investimenti speculativi come quello nei fondi Athena. Una soluzione giuridica piuttosto sorprendente, tenuto conto delle allegazioni delle difese, rivelatrici di una lunga “tradizione” vaticana di investimenti alternativi o in hedge fund, nonché delle dichiarazioni di ben due Segretari di Stato (Bertone e Parolin), rilasciate in anni diversi alle banche investitrici, attestanti la liceità di “qualunque utilizzo” del credito concesso. Quanto alla questione della “conoscibilità” di questo “precetto” canonico da parte degli imputati – soprattutto quelli estranei all’ordinamento vaticano – la sentenza accredita le dichiarazioni del teste Perlasca (smentendo se stessa nella parte in cui aveva ritenuto inattendibile e comunque irrilevante la testimonianza del prelato), secondo cui egli stesso avrebbe rappresentato in più occasioni, alle banche fiduciarie e al gestore, la volontà della SDS di “non fare speculazioni”. Tra le tante doglianze delle difese, infine, quella del convitato di pietra: nessun rappresentante delle banche investitrici (per conto della SDS) nel fondo Athena veniva infatti ammesso a testimoniare.

Claudio Urciuoli, Tommaso Politi

Autore

Avvocati Penalisti