«In quel luogo privo di luce/ si urlava come il mare tempestoso, / agitato da venti contrari». Questo è il primo vero scenario infernale. Buio pesto e aria pesante. Un gran vento agita e percuote le anime dei dannati: «Una bufera mai doma/ travolgeva nel turbinio gli spiriti, tormentandoli e sbattendoli con violenza». Questa è la prima pena da cui risalire alla colpa dei condannati. «Intesi ch’a così fatto tormento/ enno dannati i peccator carnali». Sono i lussuriosi e, a una prima lettura, queste anime dovrebbero espiare nella bufera il peccato della carne. Anche per loro si applicherebbe la legge del contrappasso che governa l’aldilà infernale: la regola secondo cui la pena esprime l’esatto contrario della colpa (dal latino contra e patior, patire il contrario). La punizione come l’opposto della colpa in vita.

Ma se consideriamo meglio le cose, non siamo certo di fronte a una punizione così pesante ed esemplare. Dante anticipa la tolleranza dei moderni, è benevolo verso le passioni carnali. Il girone è quello più lontano dal centro dell’inferno e la condanna è tutto meno che terribile. In effetti, la pena è affine al peccato; è proprio il suo equivalente. I lussuriosi vengono trascinati in una grande tempesta, come in vita si sono lasciati trasportare da una libidine smisurata. Anche Saffo aveva descritto la passione «come un vento che si abbatte sulle querce sulla montagna».
Il vento è il disordine, l’assenza di lucidità, l’allontanamento dalla ragione. «Di qua, di là, di giù, di sù li mena» come un tempo la loro vita si era abbandonata agli istinti carnali e al desiderio sessuale. I dannati sono soggiogati da una tempesta burrascosa, tanto quanto è stata tempestosa la loro vicenda terrena.

Nell’aldilà trovano il loro inferno paradisiaco o il loro paradiso infernale: condannati a un’eterna tempesta ormonale, a una adolescenza infinita in cui la componente biologica si affaccia in tutta la sua potenza e gli ormoni prendono il sopravvento sulle incerte difese della nostra innocente giovinezza. I lussuriosi, beati loro, sono incarcerati in uno sconfinato Sturm der Liebe, una Tempesta d’Amore. E il fatto che Dante provi pietà, mista a un certo senso di autobiografico smarrimento rende il poeta umano, troppo umano. E, ça va sans dire, l’interesse va per quelli che morirono per amore. Due “anime affannate” in particolare: un uomo e una donna, che, nonostante la tempesta, restano fermamente avvinghiate. Paolo e Francesca.

Inizia così una delle vicende più famose della letteratura italiana, la prima educazione sentimentale della scuola dell’obbligo. Proprio per questo non si può evitare di indagare le questioni meno note e più inquietanti del racconto dantesco. I due stanno all’inferno e la cosa è più che opportuna per non dare adito a equivoci sulla valutazione morale dei fatti. Il loro “uscir da la schiera”, però, si giustifica con l’eccezionalità della storia passionale. Il racconto ha del sensazionale anche perché l’episodio di Paolo e Francesca appartiene in primo luogo alla cronaca dell’epoca. Paolo Malatesta di Rimini e Francesca Da Polenta di Ravenna erano cognati (Francesca era infatti andata in sposa a Gianciotto Malatesta, fratello di Paolo). Entrambi scomparvero intorno al 1287.

Sulla loro sorte si potevano fare solo congetture. Si vociferava di un delitto, ma l’alleanza tra Ravenna e Rimini era così conveniente che il crimine era stato messo a tacere da entrambe le famiglie. Rimaneva una delle tante dicerie che riguardavano le famiglie signorili dell’epoca. Dante aveva vent’anni quando avvennero i fatti e ne scriverà 13 anni dopo. Il poeta aveva partecipato alla Battaglia di Campaldino e Bernardino da Polenta, fratello di Francesca, fu suo compagno d’arme. Le confidenze sul delitto, quindi, gli arrivarono da una fonte diretta. Il poeta viene a conoscenza di tutti i particolari del fatto di sangue e, pur bisognoso di protezione, tira fuori la vicenda assumendosi la coraggiosa responsabilità di denunciare lo scandalo di una delle più potenti e spietate famiglie del tempo (Gianciotto è ancora vivo e potente quando Dante scrive). I versi del Canto V sono il primo insuperabile esempio di una vera e propria operazione verità, per avere qualcosa di simile dovremo aspettare un Émile Zola dei tempi nostri.

Un coup de théâtre magistrale per inaugurare, come in una sceneggiatura hollywoodiana, l’uso del flashback, quella tecnica narrativa efficacissima che ci trasporta nel passato attraverso i ricordi vividi di chi lo ha vissuto. La ricostruzione dei fatti svela quel “mal perverso”, il sempiterno incubo di tutte le coppie: l’adulterio. La cultura italiana ne è ossessionata. Non dimentichiamoci che quello femminile da noi è stato punito fino al 1968. Il delitto d’onore è stato abrogato solo nel 1981 insieme al matrimonio riparatore (paradossalmente tornato in auge con la sentenza ultima della Cassazione sull’impeto di gelosia). E se l’adulterio non è più reato, il tradimento resta: fa ancora parte delle vicende coniugali in sede di separazione e troppo spesso viene evocato come fosse un’attenuante nei casi di femminicidio.

Ma «Caina attende chi a vita ci spense» dice Francesca. Se i Malatesta coprirono i misfatti di Gianciotto, Dante (solo lui) fa giustizia e lo aspetta all’inferno a scontare senza attenuanti la sua pena in Caina, il posto dove sono confinati i condannati per delitti contro i parenti. Insomma, il Canto V mette mano a una questione che trasversalmente investe tutte le culture e le religioni e che, come nessun’altra, è indicatore di civiltà e di tolleranza. E ancora oggi ci arrovelliamo dietro quell’«Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende,/ prese costui de la bella persona / che mi fu tolta; e ‘l modo ancor m’offende». Il verso finale viene erroneamente usato nei convegni sul femminicidio, quando in realtà l’“ancor m’offende” di Francesca si riferisce alla forza irresistibile dell’amore che li aveva uniti in vita al di là dei codici dell’amor cortese e che continua con la stessa intensità impetuosa dopo la morte («ancor non m’abbandona»). La tempesta d’amore li unisce per l’eternità: Amor omnia vincit, l’amore vince tutto, anche la morte.

Naturalmente il “mal perverso” è sapientemente mediato dalla narrazione poetica. «Noi leggiavamo un giorno per diletto/ di Lancialotto come amor lo strinse;/ soli eravamo e sanza alcun sospetto». Questo è stato il loro irreparabile errore: aver dato un seguito concreto alla condotta proibita dei due personaggi letterari, aver confuso la letteratura con la vita vera, aver scambiato la finzione con la realtà. Le tre terzine più famose di tutti i tempi incominciano con la parola Amore, ma non si tratta dello stesso sentimento messo in scena dal Dolce Stil Novo. La sceneggiatura è cambiata e sul palco approda un nuovo soggetto. No, non è semplicemente il sesso, come tutti ci voglion far credere. Di sesso all’epoca ce n’era già tanto: “La voglia dei cazzi”, per dirla con il provocatorio titolo di Alessandro Barbero, non avrebbe scandalizzato il pubblico. Tutti i fabliaux medioevali sono un prontuario di rapporti sessuali proibiti, storie di contadine disinibite e di preti sboccacciati.

«Ma non per questo il sesso libera se stesso trasfigurandosi in Eros» avrebbe detto Marcuse. Qui compare qualcosa di nuovo, di eversivo, di ingovernabile: il piacere. Si riaffaccia dalla notte dei tempi la prepotenza di Eros. Dante persevera con la sua curiosità, e in quella insistenza ritroviamo tutte le frustrazioni dell’attuale voyeurismo. «Quanti dolci sospiri» e quali «dubbiosi disiri»? Da allora in tutte le storie, in tutti i prodotti culturali, in tutte le fiction, in tutti i reality show cerchiamo quell’eccitazione morbosa che anticipa la passione. «Aimer à loisir, aimer et mourir» scrive Baudelaire. L’eros è l’amore che si accompagna alla morte, del corpo o dell’anima: «Amor condusse noi ad una morte» conferma Dante. L’antichissima relazione fra Eros e Thanatos consolida la sua forza e si traghetta nella contemporaneità.

Quando l’eros si svela apertamente, il cielo si oscura. E quando Paolo «la bocca mi basciò tutto tremante», tremano tutte le certezze terrene. Il contatto come metafora della soglia, come passaggio estremo, porta di un altro mondo, l’incontro di amore e morte. E ogni volta che l’uomo rivive l’attimo fuggente del primo contatto «come corpo morto cade». In quel momento gli uomini «la ragion sommettono al talento». Il passaggio dalla ragione alla passione è fatale. La trasgressione si insinua da allora nel mondo occidentale, ben oltre la continua ostilità tra eros ed ethos, tra piacere e dovere del mondo classico. Qui si inaugura una nuova stagione, una nuova lacerazione. La tentazione letale dell’inosservanza, della contravvenzione, dell’infrazione. Il piacere si annida proprio lì, nella trasgressione che disubbidisce alle leggi della ragione, nel pericoloso soddisfacimento di un desiderio proibito.

Dante scelse un delitto per scendere negli oscuri meandri dell’eros e da allora la forma narrativa del noir è quella che meglio racconta il lato oscuro che si annida nella passione. Il pensiero libertino e quello moralista non riusciranno più a ricomporsi nella narrazione contemporanea dei “peccator carnali”. «Galeotto fu ‘l libro e chi lo scrisse». Così come Paolo e Francesca furono vittime del desiderio fedifrago di due amanti leggendari così noi, a nostra volta, siamo vittime inconsapevoli dei versi immortali con cui Dante incornicia il piacere peccaminoso del desiderio proibito. Le inquietudini dantesche risuonano oggi con la stessa intensità: «Hey, babe, Take a walk on the wild side».