Il bicchiere è più che mezzo vuoto
Vinitaly e la guerra dei dazi: brindisi amari mentre l’economia globale traballa

Con il tempismo beffardo che spesso accompagna le sfighe, il Vinitaly si celebra proprio mentre l’economia mondiale vacilla sotto i colpi della guerra commerciale riaccesa da Donald Trump. Si alzano calici amari e il bicchiere, a guardarlo bene, è più che mezzo vuoto. Intanto, i mercati globali bruciano ogni giorno capitalizzazioni per migliaia di miliardi di dollari. E non stupirebbe se Meloni e Salvini declinassero l’invito alla manifestazione: il rischio di essere sommersi dai fischi (per i fiaschi) — o, per usare un eufemismo, dai «buu» del malcontento — è tutt’altro che remoto.
Va anzitutto respinta con decisione quella fastidiosa e pigra semplificazione secondo cui i temi dell’economia globale sarebbero «roba da addetti ai lavori». È proprio questo approccio minimalista ad aver stancato. Non si può, infatti, continuare a vivere la globalizzazione “à la carte”, accettandola solamente quando fa comodo — magari mettendosi in fila per l’ultimo iPhone “Made in USA”, assemblato però con componenti provenienti da una decina di Paesi (oggi colpiti da dazi). Ecco un esempio plastico delle interdipendenze complesse che caratterizzano il nostro tempo, figlie di una globalizzazione certo imperfetta, ma pur sempre reale e strutturale.
Se davvero si intende archiviare la globalizzazione occorre almeno sapere a cosa andiamo incontro dopo trent’anni di scambi sempre più intensi: per un Paese come l’Italia, profondamente integrato nelle catene globali del valore — in particolare in ambito europeo — questa transizione è delicatissima. Le imprese esportatrici, specialmente nei settori del lusso, della meccanica, dell’agroalimentare e del vino (non a caso al centro del Vinitaly), dovranno ripensare strategie, filiere e approcci commerciali. A ciò si aggiunge l’effetto domino sull’occupazione, che in tempi d’incertezza viene facilmente sacrificata da investitori sempre più prudenti, inclini a trattenere liquidità piuttosto che investirla in capitale umano.
Più in generale, la crisi economica in corso va letta come un intreccio di cause ed effetti, dove Trump è al tempo stesso risultato di un disagio (oggi) e possibile catalizzatore di un peggioramento (domani). Se l’Unione Europea avesse affrontato per tempo nodi strutturali come la stagnazione del mercato interno, il calo dei salari (con l’Italia fanalino di coda), l’impazzimento del mercato energetico e le storture ideologiche del Green Deal, oggi avrebbe armi migliori con cui negoziare con Washington. Invece, con l’ombra di Trump si sommano problemi su problemi; e gli scenari che si profilano non promettono nulla di buono: persino una parte crescente dell’opinione pubblica americana sembra accorgersene, come dimostrano le proteste che si moltiplicano in diversi Stati. Secondo molti analisti, la strategia tariffaria di Trump sta già avendo effetti tangibili: Goldman Sachs, ad esempio, ha ridotto le stime di crescita del PIL per il 2025 e alzato al 45% la probabilità di una recessione, proprio in virtù delle tensioni commerciali innescate dalla nuova ondata di dazi.
Al Vinitaly, certo, si brinda ma vien da pensare che circolino più amari e digestivi che bollicine: per lenire il logorio della geopolitica contemporanea e, magari, dimenticare le sciagure economiche che ci arrivano dritto dall’altra parte dell’oceano.
© Riproduzione riservata