All’indomani dell’esplosione del caso dell’ “orribile mattanza” nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, gli agenti penitenziari giustificarono quella che definirono una “perquisizione straordinaria” in risposta a una protesta violenta fatta dai detenuti. La Procura di Santa Maria Capua Vetere (Caserta) ha chiesto l’archiviazione per 14 detenuti che erano stati denunciati dal personale della polizia penitenziaria in servizio al carcere di Santa Maria Capua Vetere per le proteste del 5 aprile 2020, che portarono il giorno successivo ai pestaggi da parte di circa 300 agenti della Penitenziaria e violenze ai danni di quasi trecento detenuti del Reparto Nilo.

Lo scenario che viene fuori al momento è tremendo: non ci furono lesioni e minacce ai danni degli agenti della polizia penitenziaria e per questo le loro accuse sono oggetto di una richiesta di archiviazione da parte della Procura. Una violenza che sarebbe dunque scattata senza alcun motivo. Le prove e i tentativi di depistaggio da parte degli agenti sarebbero state costruite ad arte con foto e dichiarazioni che poi i video avrebbero smentito.

Secondo la ricostruzione fatta dall’Ansa la perquisizione straordinaria, che il Gip di Santa Maria Capua Vetere definì nell’ordinanza di arresto emessa il 28 giugno scorso “un’orribile mattanza”, fu motivata dai vertici del carcere e del Dap come una risposta alle proteste avvenute il giorno prima, quando alcuni detenuti del Reparto Nilo occuparono i corridoi dopo aver saputo della positività al Covid di un recluso; la protesta rientrò dopo alcune ore, e il giorno dopo nelle celle dei detenuti furono ritrovate, a detta degli agenti, pentolini con olio bollente e spranghe.

Ma secondo la Procura quegli oggetti furono messi apposta lì dagli agenti, per giustificare il ricorso alla violenza contro i detenuti. Dopo la protesta furono individuati 14 detenuti quali capi della rivolta e denunciati per resistenza e minaccia a pubblico ufficiale e lesioni personali; questi, tra cui l’algerino Hakimi Lamine, furono portati in isolamento. Secondo quanto riportato dal Mattino gli agenti per creare un precedente, per giustificare la violenza, chiesero “le teste” dei capi della rivolta e, scegliendo tra i detenuti “ultimi tra gli ultimi”, gli esecutori di quell’ordine andarono a pescare dalla psichiatria, tra gli ergastolani, e tra gli stranieri. Dodici “predestinati” furono messi in isolamento. E furono “liberati” solo dopo l’arrivo in carcere del magistrato di sorveglianza Marco Puglia. Avevano ancora i vestiti insanguinati. Era l’8 aprile 2020, due giorni dopo la rappresaglia nel Nilo.

Uno dei detenuti indicato tra i capi della rivolta era l’algerino Hakimi Lamine. Secondo la Procura l’uomo morì stroncato dai farmaci ad inizio maggio 2020 dopo un mese di isolamento e per la sua morte sono indagati in 12 tra ufficiali e sottufficiali della polizia penitenziaria e funzionari del Dap. Per la Procura quella morte fu “causata delle torture”. Agli atti anche i racconti dei detenuti che erano con lui negli ultimi istanti di lucidità quando, ormai in agonia, chiamava la madre. Lamine compare in alcuni video mentre durante le proteste mangiava crackers sotto la porta della sua cella. Ed era in una sezione diversa da quella interessata dai disordini, ma la Penitenziaria lo indicò falsamente tra i leader della protesta.

Per la Procura (Procuratore Aggiunto Alessandro Milita e sostituti Daniela Pannone e Alessandra Pinto) quella protesta del 5 aprile non diede luogo a reati, come denunciato dalla penitenziaria; anzi la Procura ha contestato anche il reato di calunnia ad agenti e funzionari che denunciarono i detenuti, e ora il Gip di Santa Maria Capua Vetere dovrà decidere se archiviare le accuse a carico dei reclusi.

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Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.