Credo di aver intercettato lo sguardo arcigno e severo di Gino Strada, scomparso ieri a 73 anni, negli occhi dei miei primi studenti afghani, quando insegnavo alla Città dei Ragazzi di Roma. Ciò che mi raccontavano Noruz, Mohamed e Hafiz, sedicenni di etnia hazara sulla tormentata contrada da cui erano fuggiti, chi nascosto nei camion della frutta, chi intruppato in mezzo ad altri profughi, chi direttamente a piedi, pronti a rifare il viaggio di Marco Polo, sebbene all’incontrario, corrispondeva in pieno a quanto da tempo andava dicendo in tutti i modi, con la foga e l’energia polemica che lo contraddistingueva, il fondatore di Emergency.

Era come se quegli adolescenti dagli occhi a mandorla, la tensione febbrile a stento trattenuta, il corpo attraversato da un fascio di nervi, capaci di valicare i confini pakistani, iraniani e turchi, schivando gli spari delle guardie doganali, pronti a nascondersi sotto le sospensioni di un Tir in partenza dal porto di Patrasso, distesi su una trave di compensato, per poi, sbarcati in Italia, sganciarsi al semaforo rosso, a Treviso, “all’altezza della Conad”, così mi confidò uno di loro, incarnassero l’indignazione che una volta portò Gino Strada a spiegarci che non dovremmo mai arrenderci, noi esseri umani, all’evidenza innegabile della crudeltà: «Dobbiamo convincere milioni di persone del fatto che abolire la guerra è una necessità urgente e un obiettivo realizzabile. Questo concetto deve penetrare in profondità nelle nostre coscienze, fino a che l’idea della guerra divenga un tabù e sia eliminata dalla storia dell’umanità». A ben pensarci, aggiungeva convinto, il genere a cui apparteniamo, non è forse riuscito ad abolire, nella maggioranza della Terra, la schiavitù?.

A molti potevano sembrare parole enfatiche, utopiche. Fossero uscite dalla bocca di un semplice portavoce, uno di quei funzionari dello spirito o divulgatori politici che giornalmente ci fanno la morale restando seduti sui loro scranni ben retribuiti, magari sarebbe stato difficile non definirle retoriche. Ma dette da lui, che aveva estratto migliaia di proiettili dalla carne dilaniata delle persone, pronto a curare le ustioni sui corpi dei bambini innocenti, ad aprire ospedali e centri sanitari nei tuguri del mondo, in Ruanda, Cambogia, Iraq, Afghanistan, Sierra Leone, scoprendo con raccapriccio le atrocità di cui, in ogni conflitto bellico, risulta sempre vittima la popolazione civile, assumevano una forza innegabile, soprattutto agli occhi dei più giovani che, nel momento in cui lo conoscevano, non potevano non sentirsi attratti verso quest’uomo senza peli sulla lingua, dal proverbiale caratteraccio. Che prendeva posizione. Rischiava. Si esponeva. Non si tirava mai indietro. Perfino se non eri d’accordo con lui, avresti dovuto rispettarlo. Un’intransigenza etica rara pulsava nelle sue vene sotto sforzo: di quella saremo in molti a sentire la mancanza nel panorama di tristi figurini che abbiamo di fronte, anche perché, così facendo, riusciva a coinvolgere persone diverse l’una dall’altra.

Quando ad esempio egli affermava, e gli capitava spesso, determinato e caparbio quanto bastava per accrescere la schiera di chi lo riteneva un montato, che le solenni e pompose dichiarazioni dell’Onu sulla salvaguardia dei diritti umani sono oggi di fatto cartastraccia in molte parti del pianeta, poteva dirlo a ragion veduta, non si trattava di una bella frase ad effetto; al contrario, quel pronunciamento appassionato, scaturito dall’esperienza diretta delle cose, era la pura realtà. Quale giustizia può esserci in un mondo costruito come il nostro? Alzi lo steccato e pensi di stare a posto. Ciò che conta nella vita, questo rappresenta a mio avviso l’insegnamento più prezioso di Gino Strada, non è la bandiera sotto cui ti schieri, né l’idea che propugni, nemmeno il modo in cui lo fai, bensì l’azione concreta che puoi portare per legittimare quanto dichiari. Se poi esci dalla posizione di sicurezza in cui ti trovi, mettendo in conto la possibilità di farti male e quando sbagli paghi di tasca tua, allora sì, diventi credibile.