L'intervista
A Milano il costo della vita è sfuggito di mano, Marco Bentivogli: “Se una città è vietata ai lavoratori tradisce il suo spirito fondativo”
Parla il già segretario CISL, fondatore di BASE ed esperto di politiche del lavoro: “Abbiamo una scuola che non sta alimentando percorsi di mobilità sociale. In Italia come è noto si eredita la ricchezza ma si eredita anche la povertà”

A Milano si ha la sensazione che qualcosa sia sfuggito di mano. Si guarda con orgoglio alla crescita suscitata dal mercato, dall’apertura ai flussi finanziari, ma appena si volge lo sguardo ci si accorge che c’è un pezzo di città che è scivolato indietro. Il “lavoro di mezzo” sembra essere più vicino – per opportunità e raffronto con i costi – a quello che ha come parametro la sussistenza. Qui forse è un fenomeno amplificato , mentre sta interessando tutto il paese….
«La questione salariale italiana ha molteplici cause e necessita altrettanti strumenti. Bisogna distinguere i piani, quello del lavoro “povero” dal dato più generali dei salari bassi. Anche perché si devono affrontare con strumenti diversi. Il “lavoro povero” si affronta da un lato con il salario minimo legale che serve a costruire un battente sotto il quale non si deve scendere per nessun motivo, per “decenza”, a cui deve essere aggiunto “il giusto salario”, che va determinato dalla contrattazione. Questo deve essere l’impianto. Il salario minimo deve essere la soglia di decenza per qualsiasi lavoro, pubblico, privato e con qualsiasi contratto, dipendente o autonomo. E quando lo si riscontra vanno chiuse le attività che lo sfruttano. Il problema specifico di Milano è che il rapporto tra il prezzo a metro quadro delle abitazioni e il reddito si sono disaccoppiati, i prezzi crescono tantissimo e sempre più sganciati dai salari. Questo fa sì che la quota di persone private da possibilità reali di cittadinanza è crescente. II terziario è il settore in cui è maggiormente diffusa l’instabilità contrattuale e dove ci sono sacche troppo ampie di lavoro povero. La povertà già è un peccato sociale, la povertà in condizioni di lavoro è ancora di più inaccettabile. Una valutazione che bisognerebbe fare riguarda quante persone che svolgono i lavori dentro la città ma ne vivono fuori. Se una città è vietata a chi vi lavora, tradisce il suo spirito fondativo: le città nascono come il luogo della libertà e delle opportunità. Se questi pilastri restano sempre più prerogativa del buen retiro dei più fortunati, non chiamiamole più città».
Ma com’è possibile che una città come Milano, non solo inclusiva ma che ha creato lavoro, non l’ha solo accolto, si sia ridotta ad essere così povera di prospettive ?
«Il problema che riguarda in particolare Milano è che il mercato del lavoro è molto polarizzato, ci sono lavori scelti e di altissima professionalità ben pagati, ma non c’è più il lavoro “medio”, Lo scivolamento di questo verso il basso è stato il vero elemento problematico. E’ accaduto perché il nostro modello contrattuale, per la stragrande maggioranza dei lavoratori, non ha garantito la tutela del potere d’acquisto dei salari».
Ma è ineluttabile questo cambiamento del mercato del lavoro?
«No, è ineluttabile solo nei paesi in cui non esiste tutela contrattuale salariale, nel senso che non si costruiscono modelli contrattuali adeguati ai tempi, secondo dove è bloccata la mobilità sociale. Abbiamo una scuola che non sta alimentando percorsi di mobilità sociale. In Italia come è noto si eredita la ricchezza ma si eredita anche la povertà e i motori di riscatto della propria condizione ereditata, il lavoro e la scuola, la formazione, invece di infrangerli, cristallizzano gli status quo».
Si parlava prima di Confindustria che ha sempre visto in modo un po’ distorto determinati tipi di contrattazione. Ma ci sono anche irrigidimenti da parte sindacale che vedono la contrattazione territoriale come una specie di attentato ai contratti nazionali; e d’altra parte pure le istituzioni, anche quelle di governo metropolitano, cittadino, che forse non hanno gestito le ricadute degli investimenti, i cui effetti dovevano trovare una distribuzione…
«La realtà è che tutti i soggetti di rappresentanza che siano datoriale e sindacali devono rilanciare la sfida della rappresentanza. E per quest’ultima senza coraggio e innovazione non si va lontano. La contrattazione (fatta eccezione degli accordi timbrati a livello territoriale per avere gli sgravi) non sta crescendo. I contratti nazionali sono sempre più difficili da rinnovare (il tempo medio negoziale è cresciuto tantissimo), i contratti aziendali sono molto pochi. Un modello contrattuale così offre rappresentanza per una minoranza di imprese e lavoratori. E qui la causa del livello troppo basso dei salari italiani. I salari non cresceranno perché il contratto nazionale pareggia (e a volte neanche) i conti rispetto alle perdite di potere d’acquisto, ma è la contrattazione integrativa territoriale o aziendale che deve distribuire la produttività e farli crescere. Per questo bisogna rilanciare la contrattazione territoriale. Su temi che costituiscano grandi alleanze per fare delle città gli ecosistemi di innovazione e competenze. Una città che “apprende” è una città più forte. La contrattazione territoriale è in alternativa a quella aziendale, specie per le piccole imprese dove non si farà mai il contratto aziendale. Non è, come stigmatizza Confindustria, il terzo livello contrattuale. È lo strumento per fare insieme ciò che non si può fare da soli, su competenze, innovazione, produttività. Che dove cresce va redistribuita».
E chi governa la metropoli che contributo può dare in questo senso? Perché in realtà il sospetto è che faccia da regolatore nei principi assoluti, ma che poi abbia difficoltà nell’intervenire, nel far la “regia sociale”…!
«In una situazione in cui noi non abbiamo nessuna forma di salario minimo legale, chi governa le città deve essere assolutamente il soggetto, l’istituzione che incoraggia questi elementi cardine del dialogo sociale. Pensiamo a tutte le persone che svolgono lavoro di assistenza, di cura alla persona. guardiamo i loro salari medi e capiamo che si tratta di lavoratori costretti a vivere fuori dalla città. Cioè sono dei non cittadini della comunità di cui si prendono cura. Uno scempio. Questa è una delle più grandi contraddizioni che devono diventare agenda politica».
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