Chi ha responsabilità politiche e di governo può decidere che la situazione delle carceri resti com’è. Può spiegare al Paese che è giusto, o almeno non così grave, che il nostro ordinamento sequestri la vita dei detenuti affidandola a un dispositivo di sistematica degradazione. Può spiegare che lo Stato fa bene, o almeno non fa nulla di male, se condanna i carcerati non solo alla privazione della libertà, ma alla disperazione, alla tortura, alla malattia, allo stupro, al suicidio. Perché di questo si tratta: del fatto risaputo e documentato che i detenuti sono sottoposti alla pena di quel regime sopraffattorio e violento. E appunto: si dica che deve essere così, o quanto meno che bisogna accettare che sia così.

Ma se chi ha responsabilità politiche e di governo ritiene al contrario che lo Stato non possa continuare nell’esercizio di questa paternità aguzzina, esponendosi cioè alla responsabilità diretta di aver costruito, mantenuto e alimentato un sistema che tormenta in quel modo degli esseri umani, allora deve far qualcosa che finora non è stato fatto. Cosa? Non pur encomiabili convegnucci o articoli come questo: buoni a far sapere che almeno per alcuni i condannati non devono marcire in galera, ma nulla più. Non pur opportuni emendamenti all’ennesimo strumento di ingiustizia: come a ottenere che al condannato sia concessa l’ultima sigaretta. No.

A chi ha il potere di fare le leggi competerebbe di impegnare il proprio nome, la propria funzione, la propria carriera nella subordinazione a un dovere ben più implicante, nell’assunzione di un obbligo ben più urgente: il dovere di proporre l’abolizione del carcere, e l’obbligo di farlo per quanto la sua proposta appaia incapace di trovare consenso e piuttosto si condanni alla riprovazione comune. Proporre l’abolizione della pena detentiva, e che la privazione della libertà possa essere disposta solo nei confronti dei soggetti effettivamente e attualmente pericolosi: e non per punirli ma unicamente per impedir loro di nuocere ulteriormente alla vita o all’incolumità degli altri. E dire chiaramente che si è disposti a perdere sino all’ultimo voto se questo deve essere il costo della rinuncia all’inerzia.

Perché la vergogna del carcere, l’ignominia della brutalità di Stato, l’inutile violenza della pena sono questioni su cui si misura non si dice l’onore della politica, ma dello stesso vivere civile («l’onore di vivere», avrebbe detto Leonardo Sciascia): e riformare radicalmente il sistema che organizza questo ripugnante apparato di afflizione dovrebbe costituire un intransigibile motivo di impegno per qualsiasi militanza politica appena degna.

Si conosce l’obiezione: che abolire il carcere, semplicemente, non si può. Perché anche solo vagheggiare l’ipotesi determinerebbe sdegno nell’opinione pubblica. Perché se pure non ci si curasse di quella reazione, sarebbe vano il tentativo anche solo di far discutere di una simile “follia” nelle sedi del potere politico. E dunque per quanto dispiaccia, per quanto sia bello immaginare soluzioni diverse, per quanto ci si auguri il futuro di una società liberata dalla pena di dover infliggere quella pena, il carcere deve per ora essere considerato una specie di male necessario.
Era quel che si diceva della schiavitù.

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