Una minoranza, considerata per lo più fastidiosa, si è occupata in questo periodo drammatico della situazione nelle carceri italiane. Fastidiosa perché, quando soffrono tutti, parlare delle condizioni dei detenuti viene reputato, da molti, quasi come un insulto per chi si è ben comportato nella società e ora si trova in difficoltà, si ammala, muore, fa fatica a sopravvivere economicamente. La mente riesce facilmente a giustificare il disinteresse, ci si dice: «Se quelli sono in carcere, una ragione ci sarà… hanno fatto del male e, dunque, non vengano ora a disturbare il mondo dei buoni, già così provato». Questa semplificazione consente di dimenticare che un terzo della popolazione carceraria è in attesa di giudizio e, pertanto, non può ancora essere considerata colpevole di nulla e svanisce d’incanto il ricordo dei 640 milioni di euro pagati dallo Stato, dal 1992 ad oggi, per ingiusta detenzione.

Le poche trasmissioni televisive che hanno dedicato spazio all’argomento, lo hanno fatto, generalmente, criticando ogni ipotesi di riduzione della popolazione carceraria per il coronavirus: in fin dei conti, già tutti noi siamo agli arresti domiciliari e perché mai chi ha sbagliato dovrebbe trovarsi in una situazione analoga alla nostra?  Questo sentire, condiviso purtroppo dai più, non è isolato e trova un riferimento in altri momenti della storia. L’indimenticato Massimo Pavarini, tra l’altro in un bellissimo libello degli anni 70 dal titolo Carcere e Fabbrica, rammentava che quando il tempo riserva difficoltà e sofferenza ci si dimentica degli ultimi.

Il rischio è di diventare egoisti e manichei. Da una parte il bene, dall’altra il male e il male va punito senza farsi troppi interrogativi. In situazioni come questa, la richiesta accorata del Papa, delle associazioni che si occupano di carcere, di qualche intellettuale, di qualche autorevole magistrato, rimangono totalmente inascoltate. Le ragionevoli proposte dell’Unione delle Camere Penali, condivise da gran parte della Magistratura di Sorveglianza, non trovano risposta. Anzi, una risposta c’è ed è esilarante: «Caro detenuto se manca ancora un po’ di pena sono disposto a liberarti, ma con il braccialetto». Peccato che il braccialetto non ci sia. Si gioca con la vita e le speranze delle persone. Sembra di assistere ad un film comico, ma di comico non c’è nulla.

Che importa se i detenuti che affollano le carceri sono 57.590 e i posti effettivi sono 48.000? Che importa se altri paesi come la Francia e persino la Turchia hanno previsto massicce scarcerazioni? Per il Ministro della Giustizia, con un passato più proficuo da dj, nelle carceri non esiste il rischio di epidemia e il parere viene confortato da qualche magistrato come Gratteri, abituè di salotti televisivi, il quale sostiene, addirittura, che nelle carceri c’è ancora spazio e, semmai, se ne possono costruire delle altre. Come se il virus aspettasse educatamente l’edificazione proposta con piglio e pari genialità dal noto pubblico ministero.

Il sovraffollamento nelle carceri, dunque, non esiste è una invenzione di alcuni perditempo buonisti; i detenuti non devono attenersi al distanziamento sociale imposto per gli altri, le celle sono diventate improvvisamente ampie e sicure; i contagiati secondo le fonti ufficiali sono pochissimi e, quindi, suvvia, perché agitarsi tanto. Fanno bene il presidente del Consiglio e il ministro della Giustizia a voltarsi dall’altra parte: non è affar loro e, così, evitano anche di litigare con parte dell’opposizione che, ancora una volta, cavalcando paure e difficoltà delle persone, aveva criticato persino la farsa immaginata dal Governo.

Non c’è da meravigliarsi di tutto questo. La spinta che nel 2013, grazie alla sentenza Torreggiani, aveva fatto aprire gli occhi sulla vergognosa situazione delle carceri italiane è esaurita da tempo. Eppure, il numero dei detenuti era persino inferiore rispetto all’attuale; un movimento di opinione trasversale ritenne scandalosa la situazione degli istituti di pena e vennero avviati, con meritoria intuizione dell’allora ministro della giustizia Orlando, gli Stati generali dell’esecuzione penale, per rendere la pena più vicina al modello costituzionale. I risultati di tale iniziativa vennero, peraltro, traditi e abbandonati dallo stesso guardasigilli, dal suo partito e dalla maggioranza dell’epoca per mere convenienze elettorali.Da quel momento l’argomento carcere per la politica è stato un tabù, un buco nero dal quale occorreva stare lontani per evitare di perdere consensi.

Ancora una volta è dovuta intervenire la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per verificare come l’Italia stia gestendo l’emergenza Covid-19 nelle carceri italiane. La Corte, accogliendo la richiesta di due avvocati delle Camere penali nell’interesse di un detenuto presso la casa circondariale di Vicenza, ha chiesto al Governo quali misure preventive siano state poste dalle autorità competenti nel carcere di Vicenza e se sia stata considerata l’eccezionale crisi sanitaria legata al contagio. La Corte inoltre vuole sapere se siano state previste per il richiedente misure alternative al carcere, tenendo conto anche della circostanza che non risulterebbe possibile osservare il distanziamento sociale.

Il provvedimento della Cedu, anche se riguarda un singolo detenuto, appare all’evidenza di portata generale e il richiamo dovrebbe ancora una volta farci arrossire. Vedremo se tale monito riuscirà a risvegliare le coscienze sopite e a determinare una svolta. D’altro canto il vaccino per curare l’indifferenza si potrebbe trovare e sarebbe semplice da somministrare. Si tratterebbe di una miscela composta da precetti e valori costituzionali, una porzione di buon senso, associata a un pizzico di umanità e calorosa solidarietà. Il virus, però, non si è fermato alle porte delle carceri, ma ha avuto anche altri effetti dirompenti.

Governo e ministero della Giustizia, con l’avallo di parte della magistratura, sono impegnati nel tentativo di stravolgere, o meglio distruggere, una volta per tutte il processo penale. Con la giustificazione dell’emergenza si vogliono, infatti, introdurre definitivamente modalità che porteranno ad un processo destrutturato, informe e smaterializzato, lontanissimo da ogni principio costituzionale, dalle regole del processo liberale e dal buon senso. Il tutto giocando sulle preoccupazioni e sulle paure del momento.

Tutti staranno davanti al proprio computer, avvocati, magistrati inquirenti e giudici. Questi ultimi potranno persino decidere dalle loro abitazioni ricorrendo magari, come nei migliori quiz televisivi, all’aiuto da casa o dell’esperto per decidere. Insomma, verrà definitivamente recepito il processo a distanza che il nostro codice prevedeva solo per casi eccezionali, perché chiaramente confliggente con principi costituzionali. Anche in questo caso il vaccino ci sarebbe, ma è difficile da reperire: si tratta della ragionevolezza. Non c’è di che essere ottimisti, ma esserlo non costa nulla.

 

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