I dati parlano chiaro. Su un totale di circa 500 candidati in tutta la Campania, solo poche decine hanno finora beneficiato della detenzione domiciliare prevista dal governo per evitare che le carceri si trasformassero in focolai di Coronavirus. A denunciarlo sono stati il garante regionale e la Camera penale di Napoli. I motivi? Sono presto detti: oltre la questione di braccialetti elettronici, introvabili sebbene necessari per i detenuti ai quali restino da scontare da sei a 18 mesi di reclusione, non bisogna dimenticare la carenza di personale degli uffici giudiziari e i requisiti troppo stringenti fissati dal decreto legge 18. Tanto che, dalle parti del Tribunale di Sorveglianza partenopeo, c’è chi avrebbe preferito “un provvedimento dalle maglie più larghe sulla base del quale scarcerare un numero più consistente di detenuti, magari senza passare per il vaglio della magistratura”.

La norma varata dal governo prevede che il giudice di sorveglianza disponga l’esecuzione della pena presso il domicilio soltanto per i condannati per determinati reati. Per quelli ai quali restino da scontare meno di sei mesi non occorre il braccialetto elettronico che, invece, è indispensabile per chi sia destinato alla reclusione per un periodo tra sei e 18 mesi. La pratica viene istruita dai vertici del carcere dove il detenuto si trova, mentre al magistrato spetta il solo compito di verificare la sussistenza dei requisiti previsti dal decreto. Critiche a questa impostazione giungono proprio da ambienti giudiziari: “Sarebbe stato più utile prevedere la detenzione domiciliare anche per i soggetti condannati per altri reati – spiegano dal Tribunale di Sorveglianza di Napoli – o prevedere concessione del beneficio in modo automatico, senza gravare i magistrati di un ulteriore compito.

In questo modo la platea dei detenuti destinati a tornare in libertà sarebbe stata più ampia”. Anche i braccialetti elettronici “potevano essere tranquillamente evitati per chi deve ancora scontare un anno, quindi non solo sei mesi, di reclusione”. Sulla lentezza con la quale viene disposta la detenzione domiciliare, comunque, incide anche un altro fattore: la carenza di personale che da tempo affligge il Tribunale di Sorveglianza di Napoli. Prima che scoppiasse la pandemia, come ha più volte denunciato la presidente Adriana Pangia, in servizio c’era il 45 per cento dei dipendenti previsti da una pianta organica già di per sé ridotta. Quando il governo ha definito le restrizioni per arginare la diffusione del Coronavirus, la situazione è peggiorata: per evitare assembramenti negli uffici, i vertici del Tribunale si sono visti costretti a organizzare il lavoro su turni concedendo a un terzo dei dipendenti la possibilità di operare da casa con tutte le inevitabili difficoltà tecniche che ne derivano.

“Tutto ciò – trapela dallo staff della presidente Pangia – si traduce in un rallentamento del disbrigo delle pratiche, incluse quelle relative alla detenzione domiciliare”. Non bisogna dimenticare, infine, che non tutte le istanze di detenzione domiciliare avanzate dal carcere sono ammissibili. Sempre secondo quanto riferito da fonti giudiziarie, sono decine le domande prive dei requisiti previsti dal decreto 18 che vengono ugualmente sottoposte al vaglio della magistratura. Risultato: i giudici sono tenuti ad analizzarle per poi dichiararle inevitabilmente inammissibili. Con buona pace di quei detenuti che, pur avendo le carte in regola per scontare la pena a casa, devono attendere settimane per vedersi accordato il beneficio.

 

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Classe 1987, giornalista professionista, ha cominciato a collaborare con diverse testate giornalistiche quando ancora era iscritto alla facoltà di Giurisprudenza dell'università Federico II di Napoli dove si è successivamente laureato. Per undici anni corrispondente del Mattino dalla penisola sorrentina, ha lavorato anche come addetto stampa e social media manager prima di cominciare, nel 2019, la sua esperienza al Riformista.