Il 3 marzo del 1993 moriva a 86 anni all’ospedale della Georgetown University di Washington Bruce Albert Sabin. È diventato famoso anche come “l’uomo della zolletta di zucchero”: era stato infatti lui a ideare il più diffuso vaccino contro la poliomielite che veniva somministrato con una zolletta imbevuta. Il suo nome viene spesso citato in questi giorni per via della pandemia da coronavirus, dell’andamento lento della campagna vaccinale, dei brevetti: chi propone di condividerli e chi dice che è impossibile.

“È il mio regalo a tutti i bambini del mondo”, disse invece Sabin che visse una vita piuttosto rocambolesca, spesso drammatica. Non ha mai vinto il Premio Nobel per la Medicina ma è finito nel ritornello della canzone del film Mary Poppins con quel “poco di zucchero e la pillola va giù”. Un inno, allegro e inconsapevole, alla sconfitta di un’epidemia tragica.  Sabin era nato nel 1906 nel ghetto di Bialystok, in Polonia, una città parte dell’Impero Russo. Quando aveva 15 anni era partito con la famiglia per gli Stati Uniti. Il padre Jacob era artigiano: aveva deciso di partire per via della crescente ostilità anti-ebraica che si andava diffondendo in Europa. Bruce Albert fin dalla nascita era quasi cieco dall’occhio destro.

Con l’appoggio dello zio, divenne un promettente studente di odontoiatria alla New York University. Quando però lesse il libro I cacciatori di microbi di Paul de Kruif cambiò idea: non più dentista, ma medicina. Microbiologia, per la precisione: un’epifania. L’aneddotica sulla sua vita racconta che andasse perfino raccogliendo microbi per la città, lì dove capitava: stagni, polvere, cassonetti della spazzatura e via dicendo.

Sabin si laureò, divenne capo della ricerca pediatrica, assistente di William Hallock Park, celebre per gli studi sulla difterite. Approfondì quindi lo studio delle malattie infettive: la poliomielite era una piaga in quegli anni. La malattia virale aveva paralizzato tra il 1951 e il 1955 oltre 28mila bambini. Diverse migliaia le vittime. Nel solo 51 negli USA aveva colpito 21mila persone; in Italia oltre 8mila nel 1958.

La poliomielite colpisce il sistema nervoso centrale e in particolare i neuroni del midollo spinale. Il contagio avviene per via oro-fecale: ingestione di acqua o cibi contaminati o tramite la saliva e le goccioline emesse con i colpi di tosse e gli starnuti da soggetti ammalati o portatori sani. La fascia più a rischio sono i bambini sotto i cinque anni di età. L’1% dei malati sviluppano paralisi, il 5-10% una meningite asettica. Un vaccino annunciato negli Stati Uniti nel 1934 si era rivelato inefficace, anzi letale. Il Presidente Franklin Delano Roosvelt il 3 gennaio del 1938, costretto su una sedia a rotelle con una diagnosi di poliomielite – che in seguito sarebbe stata contestata – scrisse un appello sui quotidiani e fondò la National Foundation for Infantile Paralysis allo scopo di raccogliere fondi per la lotta alla malattia. La campagna, alimentata anche da volti noti, fece esplodere l’attenzione sulla poliomielite.

Sabin era uno scienziato rigoroso, egocentrico, intransigente. Un’esplosione di contagi a New York lo aveva spinto a studiare la polio. Lo fece dal 1931 all’University of Cincinnati, nello stato dell’Ohio. Il suo primo grande risultato fu capire che non si trattava di un virus respiratorio: ma che vive e si moltiplica nell’intestino. Aveva inaugurato l’epoca degli enterovirus. Ma allo scoppio della II Seconda Guerra Mondiale Sabin partì come ufficiale medico: sbarcò in Sicilia e poi a Okinawa, in Giappone; a Berlino aveva intanto assistito a una terribile epidemia di polio. Quando tornò in America riprese le sue ricerche armando un laboratorio con 10mila topi e 160 scimpanzé. Mise a punto così un vaccino che si basava su ceppi indeboliti e che andava somministrato per via orale. Ma Jonas Salk, ricercatore della University of Pittsburgh, aveva realizzato intanto tre vaccini, uno per ogni tipo fondamentale di polio, a partire da virus uccisi e conservati in formalina, che gli USA nel 1952 approvarono. Il farmaco di Salk tuttavia non preveniva il contagio iniziale e veniva somministrato tramite iniezione.

A chiamare in causa gli sforzi di Sabin fu l’Unione Sovietica che, con altri Paesi dell’Est europeo, richiese allo scienziato di sperimentare il farmaco sulla sua popolazione. Fu un successo: il primo Paese a produrlo su scala industriale fu la Cecoslovacchia, poi la nativa Polonia, l’Urss stessa, la Repubblica Democratica Tedesca e la Jugoslavia. L’autorizzazione in Italia arrivò nel 1963, dal 1966 il vaccino divenne obbligatorio. In ritardo arrivarono anche gli Stati Uniti.

Si vaccinarono milioni di bambini in tutto il mondo. L’ultimo caso negli Usa risale al 1979, in Italia al 1982. Sabin divenne molto celebre: ricevette 40 lauree honoris causa, il Premio Feltrinelli, la Medaglia Nazionale per la Scienza. Divenne anche presidente del Weizmann Institute of Science di Rehovot, in Israele, e dopo la pensione continuò a studiare i tumori, il morbillo e la leucemia. “Non dobbiamo morire in maniera troppo miserabile – diceva – La medicina deve impegnarsi perché la gente, arrivata a una certa età, possa coricarsi e morire nel sonno senza soffrire”.

Se dolce come lo zucchero era il suo farmaco, altrettanto non era lui a quanto pare: dai modi spesso burberi, anche per una vita fin dall’infanzia segnata da drammatici sconvolgimenti. Che non finirono in età adulta: la sua prima moglie, madre delle figlie Amy Deborah – chiamate come le nipoti uccise dalle SS durante la guerra – si tolse la vita trangugiando barbiturici nel 1966. Eredi dello scienziato vivono in Italia, tra Milano, Biella e Bologna. “Il vaccino di Sabin – si legge sul sito dell’Istituto Superiore di Sanità – somministrato fino ad anni recenti anche in Italia, ha permesso di eradicare la poliomielite in Europa ed è raccomandato dall’Organizzazione mondiale della sanità nella sua campagna di eradicazione della malattia a livello mondiale”.

Se Sabin così spesso viene tirato in causa in questi giorni è per la sua decisione di non brevettare la sua invenzione, rinunciando allo sfruttamento commerciale dell’industria farmaceutica. “Tanti insistevano che brevettassi il vaccino, ma non ho voluto. È il mio regalo a tutti i bambini del mondo”, disse e non guadagnò un dollaro dalla sua scoperta. Donò i ceppi virali all’Urss, superando le gare sull’orlo della Cortina di Ferro, tra Usa e Urss, in piena Guerra Fredda, e continuò a vivere del suo stipendio da professore. Molti lo tirano quindi in ballo per la campagna vaccinale, e la penuria di farmaci, contro il coronavirus che avanza a fatica in queste settimane, questi mesi.

La questione è argomento di dibattito ormai da mesi. Oxfam ed Emergency hanno scritto un appello al governo per la liberalizzazione dei brevetti “ponendo fine al monopolio delle case farmaceutiche. A cominciare dal vaccino italiano Reithera, in dirittura d’arrivo”. Un brevetto riconosce un monopolio: un’esclusiva di produzione, uso e vendita. Vale di solito 20 anni. Questo meccanismo è considerato da molti economisti ed esperti un incentivo per investire nella ricerca. È anche vero però che molte ricerche vengono – e sono state, nel caso specifico – finanziate da ingenti investimenti pubblici.

I vaccini sono anche farmaci poco redditizi rispetto a quelli che vengono assunti per una malattia cronica. I governi hanno in effetti la possibilità di sospendere momentaneamente il monopolio, da Risoluzione 58.5 dell’Assemblea Mondiale della Sanità (Ams). Una strada alternativa, come ha ricordato il Post in un lungo e approfondito articolo sulla questione, potrebbe essere una licenza su base volontaria da parte delle aziende farmaceutiche che permetta la produzione ad altre società. Il dibattito è comunque molto più complesso di così e si ramifica in tutti i brevetti che possono esserci dentro un solo vaccino, nelle norme per gli stabilimenti industriali, negli accordi e le collaborazioni tra case farmaceutiche (Sanofi e Novartis si occupano dell’imballaggio e del confezionamento dei lotti di Pfizer e BioNTech, per esempio), nelle autorizzazioni in arrivo per altri vaccini.

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Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.