Alessandro Piperno è da tempo diventato uno di quei non moltissimi scrittori italiani che dopo dieci righe il lettore che non sappia chi le ha scritte può dire con sicurezza: “Questo è Piperno”.

Qualche pigro direbbe che questo accade perché lo scrittore romano scrive sempre lo stesso libro. Lo si diceva anche per Moravia, ed era anche quella una sciocchezza. Perché Piperno inventa continuamente storie, situazioni, personaggi.

Ogni romanzo è un nuovo romanzo, altro che lo stesso libro. Eppure appena iniziamo a leggere ci muoviamo nel suo mondo con sicurezza non comune, sappiamo dove rallentare la lettura, dove invece correre.

È vero, in questo nuovo “Aria di famiglia” (Mondadori) ritroviamo il professor Sacerdoti, alter ego dell’autore, che era anche il protagonista del precedente – e bellissimo – “Di chi è la colpa”, e questo senz’altro aiuta chi conosceva quel libro a ritrovarsi in una stanza ben conosciuta, a muoversi al buio senza sbattere contro la parete. Ma non è qui la spiegazione.

Bisognerebbe piuttosto cercare di capire quale corda nascosta in noi Piperno riesca a fare vibrare in modo impercettibile. E secondo noi questa corda nei suoi libri precedenti era stata quella del rimpianto per qualcosa che chissà dove e chissà quando era successa anche a noi: non ce lo ricordiamo esattamente ma aveva l’inconfondibile profumo del rimpianto del tempo perduto, dal primo libro piperniano “Con le peggiori intenzioni” passando per “Persecuzione” fino appunto a “Di chi è la colpa”.

Qui però le cose cambiano. Il rimpianto per il passato diventa critica del presente. La memoria non è tutto, non è più fine a se stessa. È un altro Piperno che si aggira in questo mondo sempre più strano tra Brexit, Covid e Sette Ottobre, che non smette di ricordare ma lo fa con gli occhi del qui e ora: ciò che accompagna il protagonista di “Aria di famiglia”, anche se lo dice e non lo dice, è la costernazione davanti a visi invecchiati, il dégout per l’ambiente di lavoro, lo straniamento per una situazione incresciosa in cui si viene a trovare, novello Joseph K. alla mercé dell’altrui ego e relativo devastante narcisismo.

È la denuncia non gridata ma proprio per questo più pregnante delle manie di oggi, del cattivo gusto. Tutto ciò che amplifica le cattiverie umane, quelle solite, e le ingigantisce. Più che salvezza, ci sono palliativi, meglio di niente, al massimo qualche brandello di felicità.

E allora raccontiamolo ma non troppo questo “Aria di famiglia“, nel quale Sacerdoti (una volta sola viene chiamato “Alessandro”, proprio come una sola volta il Narratore della Recherche viene chiamato “Marcel“), professore di letteratura francese all’università di Roma, misantropo, scapolo, intelligentissimo, un giorno viene a trovarsi dentro un “processo” kafkiano nel quale è accusato da una collega di aver adoperato a lezione frasi sconvenienti (diremmo “sessiste”) che poi erano nientemeno che di Flaubert.

La pena è la cacciata dalla cattedra dell’impaurito Sacerdoti, la sua fuga dal mondo, troppo pesanti l’onta morale e l’onda social che lo annichiliscono. È una freccia che Piperno scocca contro questa modesta nuova banalità del male: lo shitstorm, la panna montata, e diciamolo pure il politically correct che è diventato la gigantesca cometa che brilla nel firmamento della contemporaneità.

Sacerdoti-Joseph K. si ritrova dunque in un ginepraio che non genera disperazione ma come una rassegnata calma interiore che prelude a una svolta inattesa, l’entrata nella vita del professore di un bambino senza più genitori di cui lui, inopinatamente, diventa tutore.

E qui il romanzo svolta verso una dimensione assolutamente anti-piperniana con il rapporto tra Sacerdoti-Piperno e un bambino, giacché lui proprio non li sopporta, i bambini.

Non diremo i tanti giri narrativi che reggono tutta la seconda parte del romanzo, piena d’imprevisti e colpi di scena, a confermare una fantasia in contrasto con lo stereotipo dello scrittore decadente e cerebrale cui certa critica da rotocalco da ombrellone gli ha affibbiato: qui al contrario è tutto uno snodarsi di situazioni, nel misto di brillantezza e malinconia, ci permettiamo di dire, di gusto americano (combinazione, nelle ultime pagine viene citato il povero Paul Auster) che d’altronde Piperno conosce benissimo, ivi compreso l’immancabile umorismo ebraico.

Un esempio. Caduto nel dimenticatoio, il romanziere Sacerdoti sente una signora in treno dirgli: «Ma lo sa che pensavo che era morto?». E lui: «Sa che le dico, signora? Ogni tanto lo penso anch’io».

Qui non c’è il trionfo dell’amore perduto simboleggiato dal gran personaggio di Francesca in “Di chi è la colpa”, c’è un amore diverso, ma pur sempre perduto, per il bambino-adoloscente Noah in un legame che cresce e improvvisamente si spezza, fino alle ultime intrinsecamente dolenti pagine sulle quali incombe persino un lontano sentore di morte.

“Aria di famiglia” è dunque un altro passo avanti nell’avventura letteraria di Alessandro Piperno, cosa che non era affatto scontata dopo il capolavoro precedente: alla fine resta sempre il gran rovello su ciò che poteva essere e non è stato, o forse su ciò che non doveva accadere ma pure è accaduto. Si chiama maturità, questa, nell’incedere del tempo che passa e non lenisce il dolore.