Per il governo israeliano e per le Israel defense forces si tratta di un momento difficile. L’inchiesta sull’uccisione dei volontari della World Central Kitchen durante un bombardamento nella Striscia ha confermato le responsabilità delle forze armate per una “errata identificazione” degli obiettivi. Le Tsahal hanno deciso di licenziare due ufficiali dell’esercito e richiamarne altri tre. “Coloro che hanno approvato l’attacco erano convinti che stessero prendendo di mira agenti armati di Hamas”, hanno detto le Idf, “Un grave errore derivante da un grave fallimento dovuto a un’errata identificazione”. Ma per l’Ong dello chef José Andrés, l’inchiesta interna delle Idf non basta, e chiede un’indagine indipendente. Per Israele, il dossier è particolarmente scottante e imbarazzante. E si inserisce in un quadro di tensioni non solo per l’andamento del conflitto a Gaza, ma anche per le minacce da parte dell’Iran e per le divergenze con l’alleato americano.

Ieri, mentre si celebravano i funerali dei sette membri dei Pasdaran uccisi nel raid di Damasco, il comandante della Guardia rivoluzionaria, il generale Hossein Salami, ha detto che “nessuna minaccia resterà senza risposta. Mentre il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, ha affermato in televisione che “la risposta iraniana all’attacco al consolato di Damasco è inevitabile”, ma su “dove, come, quando e quale sarà la portata della risposta non siamo obbligati a chiederlo”. Lo Stato ebraico è in massima allerta. E il timore riguarda anche le rappresentanze all’estero. Le autorità israeliane, secondo quanto riportato dai media locali, hanno deciso di chiudere 28 ambasciate per le manifestazioni della Giornata internazionale per Gerusalemme: giornata proclamata dall’Iran. Il timore di rappresaglie o di violenze è alto. E l’allarme riguarda anche Roma, dove la sede diplomatica israeliana è stata chiusa per prevenire eventuali momenti di tensione o possibili attacchi.

Nelle stesse ore, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha lanciato un primo segnale di distensione verso Washington. Dopo la telefonata con il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, il premier israeliano ha dato il via libera alla riapertura del valico di Erez e all’utilizzo del porto di Ashdod per aumentare il flusso di aiuti umanitari nella Striscia di Gaza. Una nota del gabinetto di guerra ha giustificato la decisione per “evitare una crisi umanitaria” e “garantire la continuazione dei combattimenti”. Ma è chiaro che dietro questo cambio di rotta vi sia l’esplicita richiesta di Washington per fare di più non solo nella fornitura degli aiuti, ma anche nella protezione dei civili: sia residenti palestinesi sia volontari impegnati nel delicato compito della distribuzione dei beni di prima necessità. La scelta del governo Netanyahu ha avuto un’accoglienza positiva ma non particolarmente entusiasta da parte della comunità internazionale. Gli stessi Stati Uniti, attraverso le parole del segretario di Stato Anthony Blinken, hanno in qualche modo frenato gli entusiasmi.

“Osserveremo con grande attenzione quali saranno queste misure, come si raggiungerà un miglior deconfliction, un miglior coordinamento in modo che i cooperanti siano protetti” ha detto Blinken, e “nei prossimi giorni osserveremo questa cosa e daremo una valutazione dell’inchiesta sull’incidente del Wck, e vogliamo non solo vedere i passi fatti ma anche i risultati che ne sono seguiti”. Il segnale è chiaro: l’amministrazione Biden è contenta delle aperture, ma vuole anche che queste mosse di Netanyahu non siano solo scelte politiche o di immagine, ma il segno di effettivo cambio di passo rispetto alle attuali regole con cui hanno gestito la guerra a Gaza. L’Occidente vuole qualcosa in più dallo Stato di Israele. E oltre agli Usa, lo ha fatto capire anche l’Unione europea, che ieri, attraverso le parole dei suoi più alti funzionari, ha espresso dei messaggi netti.

“L’annuncio di Israele di riaprire temporaneamente il valico Erez e di consentire l’ingresso degli aiuti attraverso il porto di Ashdod non è sufficiente” ha scritto su X il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel. E dello stesso avviso è l’Alto rappresentante dell’Ue per la politica estera, Josep Borrell. Segnali che fanno comprendere come il governo israeliano rischi l’isolamento internazionale. Uno scenario temuto dall’opposizione interna ma anche dagli alleati nel mondo. E come prova di una possibile (rinnovata) disposizione al dialogo da parte di Netanyahu, l’attenzione è rivolta di nuovo al Cairo, dove è attesa una nuova riunione tra il direttore della Cia, William Burns, il capo del Mossad, David Barnea, ed alti funzionari di Qatar ed Egitto. Vertice cui dovrebbero prendere parte anche il direttore dello Shin Bet, Ronen Bar, e Nitzan Alon, figura-chiave delle Idf per la questione ostaggi. L’obiettivo è riattivare il negoziato per una tregua a Gaza e parallela liberazione delle persone rapite il 7 ottobre. Ma tra Hamas e Israele le distanze sembrano ancora molto ampie.