La faccenda che ha portato alle dimissioni del cardinale Becciu ha un’origine giornalistica prima che giudiziaria. Fu infatti l’Espresso, diretto da Marco Damilano, a montare il caso di quel principe della Chiesa e dell’inchiesta-calderone che l’ha coinvolto con addebiti via via fioriti intorno alla prima ipotesi di illecito (l’acquisto, a prezzo giudicato improbabile, di un palazzo londinese). Quel settimanale ha sempre negato che il proprio lavoro abbia in qualsiasi modo influenzato le determinazioni papali circa il trattamento di giustizia da riservare a Becciu (un trattamento, diciamo così, non troppo predisposto a tenere in conto le ragioni della difesa): ma non ha mai spiegato come il Papa potesse disporre delle informazioni – chiamiamole in questo modo – raccolte da l’Espresso prima che esse fossero pubblicate. E non si tratta propriamente di un dettaglio.

Becciu, infatti, fece causa al settimanale e, contro l’atto di citazione notificatogli, il direttore de l’Espresso allegò che mentre uscivano le notizie di agenzia sulle dimissioni del cardinale “era in preparazione l’uscita del nostro settimanale per la domenica successiva, con la copertina con il titolo ‘Fuori i mercanti dal tempio’ e l’inchiesta di Massimiliano Coccia sullo scandalo vaticano”. Chiunque avrebbe potuto domandarsi, e avrebbe potuto domandare a l’Espresso, se non sarebbe stato più semplice spiegare che il Papa non poteva essere influenzato da notizie ancora non pubblicate. Senonché quella domanda (a parte chi scrive) non la pose nessuno, perché la risposta era nelle cose: sarebbe stato più semplice, certo, se quelle notizie non fossero state trasmesse al Papa prima della pubblicazione. Inutile dire che la scaturigine giornalistica – ma meglio diremmo velinistica – non esaurisce le ragioni di perplessità sulla vicenda.

L’altro giorno vi è intervenuto Ernesto Galli della Loggia, rilevando come la (quasi) generalità della stampa abbia completamente trascurato che questo caso è strepitoso – sì – per le accuse mosse all’imputato e per l’eminenza del suo rango, ma soprattutto per il modo disinvolto con cui questo piccolo ma influentissimo Stato monarchico sta facendo mostra di poter fare giustizia. Galli della Loggia non l’ha nominata, ma l’eccezione in quel coro di silenzio è rappresentata da Vittorio Feltri, il quale, su Libero, ormai da mesi s’è incaparbito a far le pulci a quel processo parecchio strano, snocciolando lungo una specie di contro-inchiesta le contraddizioni, le forzature, le petizioni di principio poste a sorreggere un’accusa che sembra dover condurre a un esito di condanna predeterminato.

Deve essersene reso conto un altro autorevole commentatore e già più volte direttore del Corriere, Paolo Mieli, il quale, nel corso di una rassegna stampa radiofonica, ha infine lasciato cadere che in effetti qualcosa incuriosisce in un processo che si sviluppa secondo un modulo puramente inquisitorio, un protocollo rimesso all’arbitrio di un’autorità somma che mentre si augura l’accertamento dell’innocenza del suo ex collaboratore riorganizza le regole del processo in favore dell’accusa che reclama la condanna di quel “marcio sistema predatorio e lucrativo”. Il marcato profilo innocentista delle sparute testimonianze di cui si è detto (Libero e Vittorio Feltri, o il Galli della Loggia che non nasconde il possibile movente amicale del proprio intervento), non destituisce di un grammo la gravissima somma di dubbi sulla purezza di questo processo e delle inchieste para-giudiziarie che l’hanno preparato: responsabile o no di quel che gli si addebita, infatti, Becciu è vittima di modalità di incolpazione difficilmente giustificabili persino agli occhi di un’opinione pubblica, come quella del nostro Paese, purtroppo abituata alla giustizia pronunciata senza prove e senza adeguato spazio per l’esercizio dei diritti di chi la subisce.

Che il Cardinale Becciu abbia commesso i delitti affibbiati alla sua responsabilità, che sia invece estraneo a quei fatti o che essi non costituiscano illecito e insomma, come si dice, a prescindere dalla fondatezza o no delle accuse, resta l’evidente sommarietà di un processo che sembra molto poco orientato all’accertamento della verità e piuttosto rivolto a una conclusione preordinata, da ottenere costi quel che costi. E il costo non è soltanto (ma già basterebbe, ovviamente) la vita di una persona cui si toglie il diritto a un processo capace di chiamarsi tale in un sistema appena civile: il costo è la negazione dei principi di diritto cui un sistema si costringe pur di riaffermare la propria ragion di Stato, qualcosa che non si giustifica nemmeno in un ordinamento teocratico come quello governato dal Papa di Roma.