Prima di Joe Biden, l’ultimo politico a impedire la rielezione di un presidente degli Stati Uniti in carica è stato Bill Clinton, che sconfisse George Bush senior nel 1992. Clinton cavalcò il lungo boom degli anni 90: la disoccupazione diminuì, il mercato azionario salì alle stelle, le compagnie tecnologiche statunitensi guidarono la rivoluzione digitale e il deficit di bilancio si trasformò in un surplus. E la Cina che offriva importazioni a buon mercato non era ancora una minaccia alla supremazia americana.

Ma la Golden Age della globalizzazione americana è finito da un pezzo. In più, Biden deve affrontare l’impatto rovinoso di Covid-19 sull’economia. Ecco perché, secondo Larry Elliott del Guardian, «l’attore economico più importante negli anni a venire non sarà il presidente Biden, ma il presidente della Fed, la Banca centrale americana: Jerome Powell». Wall Street si aspetta che il Draghi americano intensifichi il suo programma di quantitative easing il mese prossimo, acquistando più asset finanziari in modo da poter pompare denaro nell’economia. Ma lo stesso Powell riconosce la necessità che l’azione monetaria, competenza della Federal Reserve, sia accompagnata da un’azione fiscale (tasse più spesa) che è competenza del governo. O, meglio, dei patti che Biden sarà in grado di fare con Mitch McConnell, il potente leader repubblicano che molto probabilmente governerà il Senato. Anche per questo motivo è assai improbabile che Biden, esponente di punta della maggioranza centrista dei democratici, possa spostarsi su posizioni di rottura su alcuni dossier – per esempio, quello sul clima – come richiesto dall’ala radicale del partito.

Tra due settimane, il re Salman dell’Arabia Saudita cederà la leadership del G20 al Primo Ministro italiano Giuseppe Conte. Proprio sotto la presidenza italiana il mondo vedrà per la prima volta all’opera il nuovo presidente degli Stati Uniti e potrà verificare le sue intenzioni di stabilire un’ambiziosa agenda economica internazionale, modellata sulla riunione di Bretton Woods alla fine della Seconda guerra mondiale. «Nel 2009, nel mezzo della crisi finanziaria globale, l’amministrazione Obama-Biden ha già lavorato con gli alleati per elevare il G20 e coordinare una risposta economica senza precedenti», ricorda Josh Lipsky, che guida il GeoEconomics Center dell’Atlantic Council. Viceversa, aggiunge Lipsky, «la risposta alla pandemia da Covid-19 è stata molto più frammentata. I singoli Paesi sono concentrati sullo stimolo fiscale e sul quantitative easing, ma la mancanza di priorità condivise a livello globale non aiuta la ripresa. Non esiste una risposta comune, ma solo una serie di reazioni nazionali. Tutto questo può cambiare nel 2020». L’idea è che, con tassi di interesse bassi e un’inflazione contenuta, sia giunto il momento di investire in infrastrutture green, assistenza sanitaria e istruzione: i fattori che accelereranno la crescita nel prossimo decennio.

«Durante l’ultima crisi abbiamo imparato che la spesa sincronizzata ha un effetto moltiplicatore: il tutto è maggiore della somma delle sue parti», spiega Lipsky. La misura del recupero dell’economia questa volta sarà il livello di diseguaglianza: l’occupazione di giovani, donne, minoranze con un occhio per coloro che sono stati particolarmente colpiti dalle crisi gemelle del 2008 e del 2020. «Dopo tutto la crisi finanziaria globale non è finita nel 2009. Ha innescato la crisi della zona euro, il conflitto armato, la crisi dei rifugiati e l’ascesa del populismo in occidente. Quale sarà l’eredità della crisi pandemica se questa volta non agiremo?», si chiede Lipsky. Oggi la posta in gioco è ancora più alta perché il modello capitalista autoritario della Cina sembra sempre più capace di imporsi.

Paradossalmente, la Cina, il paese dove il virus ha avuto origine, sarà l’unica grande economia a registrare una crescita quest’anno. Secondo il Fondo Monetario Internazionale il Pil cinese crescerà dell’1,9% entro la fine del 2020, mentre gli Stati Uniti perderanno il 4,3% e l’Europa il 7,2%. Per il 2021 si prevede una crescita della Cina fino all’8,4%, rispetto al 3,1% negli Stati Uniti e al 4,7% in Europa. Il debito degli Stati Uniti raggiungerà il 130% del Pil a causa alla crisi. Questo è il livello più alto dalla Seconda Guerra mondiale, quando il paese finanziava colossali operazioni militari. Il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti ha comunicato un deficit di bilancio record di 3,1 trilioni di dollari nell’anno fiscale terminato il 30 settembre.

Ecco perché, qualche settimana fa, in vista di un quadro comune per la risoluzione dei debiti pubblici, la direttrice del Fmi Kristalina Georgieva ha proposto un nuovo “Bretton Woods Moment”. Ovvero il rilancio di un accordo simile a quello che, nel 1944, in piena Seconda guerra mondiale, pose le basi del sistema commerciale e monetario globale. Per la Georgieva non è possibile fare a meno di un aggiornamento di quelle regole e di quegli equilibri. La crisi pandemica porta una “indicibile disperazione umana” ed “enormi sconvolgimenti: affrontiamo due compiti enormi: combattere la crisi adesso e costruire un domani migliore. Era vero a Bretton Woods ed è così anche oggi».  Il programma elettorale di Biden prevede un nuovo impulso per la collaborazione tra partner democratici globali. Non sappiamo ancora se sarà in grado di costruire una nuova coalizione internazionale sul modello di Bretton Woods. Ma sappiamo già che il mondo ha grandi aspettative verso di lui.

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