Suggerisco di leggere o rileggere ogni tanto 1984 di George Orwell, scritto nel 1948 (il titolo con le cifre capovolte) e pubblicato l’anno successivo. Vi si parla, come è noto, di un regime totalitario (lo stato di Oceania), dove un superpotere, il Big Brother (tradotto con “Grande fratello”, ma più propriamente “fratello maggiore”), autoritario e paternalistico, pervasivo e brutale, governa l’intera popolazione, spiando con dei teleschermi e con degli elicotteri dentro la vita privata delle persone, cancellando e manipolando il passato (unica vera “diversità”), inventando una neolingua che uniforma i pensieri (e che riduce il vocabolario all’osso), un bipensiero che assimila il vero al falso e arrivando a perseguire perfino gli psicoreati attraverso la psicopolizia, anche se ancora non si è arrivati alla lettura del pensiero. Qualcuno ritiene di vedere nell’attuale potere digitale una reincarnazione del Big Brother, ad esempio l’ultimo saggio di Michel OnfrayTeoria della dittatura – che individua nel nostro presente una popolazione omologata, conformista, impegnata a mettere i suoi “like” e prona a una servitù volontaria.

Ora, i rischi di una dittatura soft e consensuale, di un totalitarismo bianco, sono a tutti evidenti, e forse per la prima volta nella Storia chi è controllato si affretta a informare lui il controllore – attraverso i social – su tutti i propri movimenti. Ma le differenze sono abnormi.
Non solo il potere attuale, in Occidente, non è antiedonistico e ostile al sesso, come quello orwelliano – anzi ci invita a godere attraverso i consumi e prospera sulla pornografia – ma soprattutto posizioni come quella di Onfray mi sembrano espressione paranoica di un pensiero religioso. Ieri credevamo nella Rivoluzione, oggi temiamo il Grande Fratello… Entità metafisiche, inafferrabili, che rispondono al bisogno umano di assoluti e ci deresponsabilizzano.

Il Grande Fratello del virtuale infatti non è un oggetto alieno piombato dallo spazio, ma una costruzione umana, dunque imperfetta, contradditoria, che deve certo generare dei bisogni ma – fatalmente – anche registare i bisogni che continuamente sorgono nell’immaginario. Il movimento tra il potere e la massa è sempre biunivoco. Per disegnare e concepire i propri prodotti Steve Jobs adoperava come consulenti (sottopagandoli) dei fricchettoni californiani che erano l’ultimo residuo della controcultura anni 70. Perfino il consumatore-tipo non è, in quanto individuo, interamente plagiabile e manipolabile.

La società claustrofobica immaginata da Orwell, con il Partito-Panopticon, con l’ideologia unica del Socing, con una opposizione creata dal regime stesso per catturare i ribelli, con un sistema di spionaggio capillare (per cui tutti tradiscono e denunciano tutti), con l’uso sistematico del terrore e della tortura, somiglia casomai alla attuale Corea del Nord e non all’”Occidente reale”, certo diverso da quello ideale, ma ancora ben provvisto di anticorpi. Inoltre, la realtà è mutevole ma non modificabile da noi: il suo ritmo interno, la sua dinamica – governata da caso e necessità – sfugge perfino ai potenti, come peraltro sapeva Tolstoj.

Però è sempre utile leggere le distopie, ancora più delle utopie. In che senso? Le utopie immaginate nella storia del pensiero occidentale ci appaiono infatti ben più minacciose – nella loro irenica perfezione – di qualsiasi distopia. L’isola di Moro, la Città del Sole di Campanella, la Nuova Atlantide di Bacone e fino al Falansterio di Fourier ci presentano governi teocratici o tecnocratici animati da intenzioni filantropiche, stati assoluti impegnati nello sforzo commendevole di rendere felice l’umanità, di creare società armoniose e comunità idilliache. Al contrario le distopie della fantascienza – Wells, Zamiatin, Huxley, Orwell, Ballard, Philip Dick – e quelle cinematografiche – da Metropolis di Lang a Blade runner e fino alla serie TV Black mirror (con una immaginazione sociologica degna della Scuola di Francoforte) – almeno descrivono realisticamente utopie andate a male, e in ciò rivelano la verità totalitaria intrinseca a ogni utopia – anche la meglio intenzionata – , mettendoci in guardia.

Insomma salvano l’idea del conflitto. Dimostrando che l’imperfezione umana è più perfetta di qualsiasi “perfetta” utopia politica e tecnologica sognata dai nostri filosofi. E che le uniche utopie accettabili non sono quelle politiche, sempre normative e burocratiche, ma quelle gioiosamente letterarie, di Boccaccio e Rabelais.