“Il voto elettronico è una trappola per manipolare il risultato elettorale”. E’ questo il principale messaggio della scatenata campagna dell’ultrareazionario Jair Bolsonaro in affanno nel timore di non vedersi rinnovato il mandato alla presidenza del Brasile nelle elezioni di domenica. I sondaggi lo danno al 31%, preceduto dall’ex presidente Lula, leader della sinistra storica, fondatore del partito dei lavoratori. In favore dell’ex capitano dell’esercito Bolsonaro si è mobilitata nelle ultime settimana la potente lobby dei grandi allevatori, la lobby delle armi (il numero dei permessi per portare armi si è moltiplicato per 10 negli ultimi quattro anni) e soprattutto la fittissima rete degli evangelici (un brasiliano su 4 si professa evangelico.) Una valanga che potrebbe consentirgli una sorprendente rimonta.

Da quando vacilla nei sondaggi il presidente uscente ha ripreso a smitragliare slogan contro la sicurezza del voto elettronico, lo stesso sistema di voto con il quale è stato eletto almeno sei volte nella sua carriera politica (passa per outsider ma è stato per vent’anni deputato) senza mai aver impugnato un risultato. L’ultima volta nell’ottobre del 2018. Quando è stato proclamato presidente con il 55% dei voti al ballottaggio contro Fernando Haddad del Partito dei lavoratori, chiamato all’ultimo momento a sostituire in corsa il favoritissimo Lula. Fatto arrestare in mondovisione per un’accusa di corruzione con un ordine illegittimo firmato dal giudice di primo grado Sergio Moro. Lo stesso Sergio Moro nominato mesi dopo super ministro della giustizia dal neopresidente Bolsonaro che mai sarebbe diventato tale senza quel provvidenziale arresto.

Molti temono che questo suo insistere sulla non attendibilità dei risultati possa essere il preambolo a un colpo di stato. E’ vero che Bolsonaro conta con l’appoggio di molti generali, ma son quasi tutti generali a riposo e quindi senza truppe. E’ vero che ha dalla sua la gran parte della polizia e che la dittatura militare in Brasile è storia recente (1964-1985). Ma a quei tempi non erano contrari al governo militare la maggior parte degli imprenditori, buona parte della classe media e soprattutto il Dipartimento di stato americano. Oggi chi tra loro, cominciando dal Dipartimento di stato, appoggerebbe un golpe a Brasilia? Bolsonaro ha scopiazzato (male) Trump, ma di certo è un fenomeno. In nome dell’antipolitica è riuscito a farsi eleggere al Planalto e in nome dell’antipolitica ha governato questi quattro anni.

Il suo è stato infatti un non governo. Ha negato l’esistenza di un’emergenza Covid mentre si accatastavano le bare a cielo aperto perché i cadaveri non entravano più nelle camere mortuarie degli ospedali. “E’ un raffreddorino questo virus, tutte balle” ha sempre detto. Ha negato l’esistenza di una crisi economica mentre tutti gli indici di ricchezza precipitavano. Ha negato ci fosse una crescita della disoccupazione mentre si moltiplicavano i licenziamenti di massa. Ha negato l’esistenza di una classe sociale di poverissimi. “Non venitemi a dire che qualcuno in Brasile soffre la fame”, ha detto. E il 5,2% dei brasiliani vive sotto la soglia della totale indigenza.

Di questa postura cieca e sorda ha fatto uno stile di esercizio del potere. Siccome qualcuno poi concretamente un paese grande come un continente lo deve pur governare, si è circondato di militari. Li ha piazzati ovunque. Ne ha fatto la colonna vertebrale dell’amministrazione pubblica. Ne ha messi 7000 nei consigli di amministrazione e nei posti chiave di comando delle imprese statali. Imprese gigantesche: Petrobras (la più grande azienda pubblica latinoamericana), l’idroelettrica Itaipù, Electrobras. La metà dei ministeri è farcita di militari, cominciando dal Ministero della Salute che a un certo punto i vaccini contro il Covid l’ha comprati, con giro di soldi al centro di varie inchieste parlamentari. Ai militari Bolsonaro ha spalancato le casse pubbliche coprendoli di regalie e aumenti di stipendio. Sedici miliardi e mezzo di dollari ha investito in privilegi vari, inclusa una munifica riforma delle pensioni e un aumento salariale del 13%.

Non fanno parte di questo conteggio i costi relativi alla norma che permette ai militari non in servizio (come lo stesso Bolsonaro e vari ministri e capi di gabinetto, di ricevere compensi superiori al tetto massimo di 7500 dollari previsto per i comuni mortali). I privilegi riservati ai militari sono stati l’anno scorso silenziosamente estesi anche alle varie polizie. La domanda ora è: se è vero che è fermo nelle intenzioni di voto al 31%, che fine ha fatto quel 55% di elettori che quattro anni fa l’ha votato al ballottaggio? Lui aveva promesso ordine. La maggioranza degli elettori mostrò col voto d’essere disposta a farselo dare da un ex militare dal linguaggio violento e razzista. Il fenomeno Bolsonaro non è stato solo il risultato dell’esplosione dei partiti, non è solo la conseguenza del terremoto della vecchia classe dirigente per via giudiziaria.

E’ stato anche l’espressione della voglia di politiche reazionarie che serpeggiava (non serpeggia più?) tra tanti brasiliani ai quali non sono mai andate giù del tutto alcune politiche della sinistra al governo. Cominciando dalla legge per le quote riservate ai neri nelle università voluta dal Pt, o quel 20% dei posti nei concorsi pubblici da riservare a neri, o i diritti dei camerieri a domicilio previsti dalla civilissima quanto detestata legge per regolamentare il lavoro domestico (diritto a una giornata di lavoro non più lunga di otto ore, diritto alla retribuzione dello straordinario: norme rivoluzionarie nel Brasile dell’apartheid di fatto delle cameriere). Che fine ha fatto quella metà del Brasile alla quale non dispiaceva la frase “l’unico bandito buono è il bandito morto”? Dalla mappatura del voto nel 2018 risultò ad esempio che nella Baixada fluminense, la regione più nera e più povera dello stato di Rio de Janeiro, popolata da giovani neri e poveri, Bolsonaro avesse stravinto. Lì l’approvazione per la sua politica di mano libera alla polizia era plebiscitaria. Eppure il 77% dei minori di 24 anni ammazzati dalla polizia è anche lì, come nel resto del Brasile, composta da giovani neri poveri.

Quel 55% di bolsonaristi era fatto da evangelici (neri e poveri in maggioranza), dalla maggior parte dei votanti under 30 e, soprattutto, da moltissimi elettori bianchi, istruiti di ceto medio e medio alto. Questo dato dalle analisi dei flussi elettorali saltava all’occhio: Bolsonaro è diventato presidente quattro anni fa grazie al voto delle regioni ricche e banche del Brasile. Furono loro, i bianchi brasiliani colti che si esprimono mediamente meglio di Bolsonaro e hanno studiato certo più di lui, a spalancare le porte all’ultradestra. Chissà se è vero, come parrebbe dai sondaggi, che dopo quattro anni di non governo hanno cambiato idea.