Zé Dirceu, la vendetta. Venti anni dopo aver diretto la campagna che portò la sinistra brasiliana per la prima volta al governo – e il fondatore della Centrale unica sindacale Lula da Silva, alla presidenza della Repubblica – il mitologico José Dirceu (l’inventore politico di Lula, il suo stratega, l’uomo che mise la cravatta all’ex tornitore Lula e lo presentò agli imprenditori di San Paolo) è tornato. Ed è tornato cattivo.

Con diritti politici sospesi e due condanne confermate in appello ad aprile a 30 e a 27 anni per associazione a delinquere, corruzione attiva e riciclaggio nelle due megainchieste che hanno decapitato il sistema politico e le principali imprese brasiliane, Zè Dirceu – a piede libero – ha preso in mano la campagna del Pt per le presidenziali del 2 ottobre. Mai elezioni furono così polarizzate in Brasile, nemmeno le prime del post dittatura. Ci si spara, ci si odia, ci si insulta per strada. Favoritissimo è il resuscitato Lula, sopravvissuto politicamente a un tritacarne giudiziario durato 17 anni. L’istituto Datafolha lo dà al 47%. Da altri sondaggi sembra meno in volata, ma sempre in vantaggio sul presidente in carica Jair Bolsonaro, anche lui candidato, fermo al 32%. Altri sfidanti sono tutti sotto l’8%. Nel Pt accarezzano il sogno di superare al primo turno il 50% ed evitare così il ballottaggio. Missione quasi impossibile.

Bolsonaro – destra estrema arrivato al potere scopiazzando Trump dopo che Lula era stato fatto fuori dalla campagna del 2018 con un arresto illegale in diretta televisiva firmato dal giudice di primo grado Sergio Moro nominato subito dopo super ministro della Giustizia da un allora neopresidente Bolsonaro che mai sarebbe diventato tale senza la firma di quel provvidenziale mandato d’arresto – ha dalla sua il potente partito trasversale Bibbia vacche e pallottole (evangelici-latifondisti-lobby delle armi). Grande mossa di Bolsonaro è stata sfornare un assegno ai poverissimi più alto di quello dato dai governi del Pt, la “Borsa famiglia” con cui ha vissuto per un decennio buona parte del nordest all’87% nero, povero e tradizionalmente lulista.

Nel primo faccia a faccia televisivo domenica scorsa Bolsonaro chiamava “ex carcerato” l’ex presidente (detenuto dall’aprile 2018 al novembre 2019). Lula, dati ormai per persi i voti antisistema e tutto orientato a farsi votare anche dalla destra liberale brasiliana (sempre che esista) è riuscito nel numero da teatro di guardare l’interlocutore tutto il tempo con tenero distacco come un vecchio statista guarderebbe un pazzo che gli si butta in mezzo alla strada. Chissà se quello sguardo a filo telecamera è un’improvvisazione della vecchia volpe Lula o è frutto del sacco di Dirceu. I dirigenti del Pt si scapicollano a dire a chiunque glielo chieda che i due non si parlano da aprile, data della condanna in appello di Dirceu. Ma è Dirceu che tesse i rapporti che contano. E’ lui che ha trattato con l’ex rivale storico del Pt, l’ex governatore di San Paolo Geraldo Alckmin (Psdb, il partito alternativo al Pt) per offrirgli il posto di vice in ticket con Lula. Mossa acuta ed ardita, Pt e Psdb sono i due poli politici del Brasile nell’era precedente all’antipolitica al potere.

E’ Dirceu ad incontrare i piccoli e medi produttori e gli industriali dell’agro business dello stato di San Paolo e dell’Amazzonia. Evita gli eventi pubblici, al comizio del primo maggio è andato ma toccava scovarlo in mezzo al pubblico. Ma è lui a fare da ponte tra il partito dei lavoratori e gli strategici governatori bolsonaristi del Paranà e dell’Amazzonia. I nemici lo considerano “l’ultimo colpevole” perché, a differenza di altri condannati famosi, non è riuscito ad ottenere l’annullamento delle sue condanne. È fuori dalla cella grazie alle tutele dei diritti del condannato in via non definitiva di cui i cittadini brasiliani godono.

I suoi legali puntano alla prescrizione. Zé Dirceu, comunque vadano le elezioni, si appresta a vivere la sua vita numero 4. Dopo aver rifiutato ogni collaborazione con gli inquirenti ed essere entrato in carcere a paso lento e a pugno alzato dicendo “io non tradisco”, uscito dopo anni quattro anni intermittenti di cella per applicazione della civilissima legge brasiliana, Dirceu ha asfaltato tutti quelli che nel Pt temevano il suo rientro. La storia della sua condanna giudiziaria molto racconta, da sola, delle vicende degli ex rivoluzionari degli anni Settanta poi arrivati al potere e dei rapporti reali tra bianchi e neri in Brasile. Quando lui fu condannato, nel 2012, la mannaia del Tribunale supremo era nelle mani di un suo ex protetto, José Barbosa, l’unico giudice nero della storia dell’Alta corte brasiliana. Che la usò per squartarlo. Fu di Barbosa la requisitoria per chiedere al Tribunale il voto per far seppellire il suo ex mentore in galera. Sì, perché era stato Dirceu, nel 2003, a convincere l’allora neopresidente Lula che sarebbe stata una grande mossa di immagine nominare un giudice nero all’Alta Corte brasiliana.

E Barbosa – in diretta tv perché le sedute clou dell’Alta Corte in Brasile si seguono come le partite di calcio e gli undici potentissimi alti magistrati sono noti come gli eroi della telenovela della sera – guardando severo dal suo scranno Dirceu seduto sul banco degli imputati chiese la condanna all’Alta Corte con queste parole: “Per andare in carcere in Brasile è necessario essere molto poveri o non potersi permettere un avvocato costoso. Il sistema attuale compie una selezione quasi di casta”. Spedito in cella dal suo miracolato, Dirceu riuscì solo a dire che le galere brasiliane le conosceva già. Nel 1968 ci passò undici mesi da detenuto. Era il tempo del governo militare e lui era il leader bianco degli studenti di San Paolo. Arrestato come militante del partito comunista era sospettato di partecipare della lotta armata con il gruppuscolo “Dissidenza”. Dubbio fugato quando, un anno dopo, la guerriglia chiese la sua liberazione in cambio di quella di Charles Elbrick, ambasciatore statunitense sequestrato dai guerriglieri.

Dirceu finì esiliato in Messico e da lì, a Cuba. Tornò in Brasile sotto falso nome. I servizi cubani l’avvisarono che i generali stavano di nuovo sulla sua pista. Prese di nuovo il volo e si rifugiò all’Avana dove stette fino al 1974. Si sottopose a una chirurgia plastica che gli cambiò la faccia. Con nuovi documenti rientrò una seconda volta in Brasile e si inventò una vita tranquilla nella cittadina gaucha di Cruzeiro del Oeste. Era il signor Carlos Henrique Gouveia de Melo, commerciante di tessuti. Sposò una ignara fanciulla del luogo. Nel 1979 arriva l’amnistia. Dirceu torna a casa dal negozietto di stoffe, racconta alla moglie attonita e incredula una sintesi di tutte le puntate precedenti a lei ignote, vola all’Avana (passa anche dal chirurgo, ma non riotterrà mai la sua faccia originale) e si trasferisce da solo a San Paolo.

Da lì la sua storia è quella del Pt. Capisce che soltanto buttandosi alle spalle la retorica socialista riuscirà a prendere il governo del Paese. Convince Lula a firmare una lettera pubblica in cui promette che non cambierà la politica economica del governo del liberista Cardoso se diventerà presidente. “La mia generazione e io ci siamo preparati tutta la vita a prendere il potere – dirà Dirceu un giorno a un ammaliato inviato del giornale finanziario “Valor” – non perderemo questa opportunita”. E’ diventato da quel giorno l’uomo più cercato dai cronisti di tutto il mondo a Brasilia, ma continuano a chiamarlo “il Trattore”. Per quel modo tutto suo di spianarsi la strada.