È in corso una spietata guerra a destra in Brasile per il governo del Paese. Si gioca tutta nei tribunali. Nel solenne salone del Tribunale supremo, massimo organo giudiziario. Nei rivoli velenosi delle inchieste di vari processi penali federali. E, se sarà dato il via libera a una delle 26 richieste di impeachment presidenziale accumulate in Parlamento, nel Congresso da trasformare per l’occasione in Aula giudicante. La guerra, strisciante fino a fine aprile ma ormai dichiarata e pubblica, è tra i due principali leader della destra brasiliana: il presidente Jair Messias Bolsonaro e il suo ex alleato di fiducia, il re del processo spettacolo, l’ex giudice ed ormai ex ministro della giustizia Sérgio Moro (rimpiazzato nell’incarico da un pastore evangelico).

«Moro è candidatissimo» va ripetendo ai suoi Bolsonaro, fonte la Folha de Sao Paulo, ossessionato dalla popolarità della ex super star del governo che andandosene ha lanciato la minaccia: «Mi prendo un periodo di riposo, ma resto a disposizione del Brasile». Abilissimo e sottile, nonostante l’apparenza da irruento ragazzone di provincia ficcato a forza nel doppiopetto blu, il quarantasettenne Sérgio Moro si appresta all’ascesa alla presidenza della Repubblica – si vota tra due anni – dopo aver fatto fuori nell’ordine: prima, da giudice di primo grado nell’oscura procura di Curitiba, l’ex presidente e padreterno della sinistra brasiliana (ancora tramortita dalla sorpresa) Lula da Silva ed ora l’attuale presidente Jair Bolsonaro, ex militare maneggione con difficoltà ad esprimersi se non attraverso il turpiloquio, che mai sarebbe arrivato al governo se l’allora giudice Moro non gli avesse provvidenzialmente tolto di mezzo, in piena campagna per le presidenziali del 2018, il candidato Lula dato per favorito al primo turno da tutti gli istituti di sondaggio.

Un carro armato Sérgio Moro. Meticoloso e spudorato. Prima s’è guadagnato la leadership mediatica delle inchieste sulla Tangentopoli locale che dal 2005 in poi hanno raso al suolo l’intero establishment politico ed imprenditoriale del Brasile (il partito dei lavoratori di Lula da Silva era andato al potere per la prima volta nel 2003). Non era tutta farina del suo sacco, solo l’ultimo fondamentale capitolo di quel grappolo di inchieste, quello su Lula, era gestito da Moro dal marzo del 2014, ma il pubblico televisivo – e quindi il corpo elettorale – hanno percepito lui e solo lui come l’angelo sterminatore dei ricchi e corrotti. Poi ha tirato la volata al candidato antiestablishment Bolsonaro, che in realtà dell’establishment fa parte da un pezzo essendo da 28 anni imbucato in Parlamento.  Eletto Bolsonaro presidente, lo stesso identico Sérgio Moro che aveva dato tonnellate d’interviste in cui giurava che mai avrebbe lasciato la magistratura per fare politica considerando egli le due missioni incompatibili, ha accettato nel novembre del 2018 l’incarico di super ministro della Giustizia offertogli dall’ex colonnello fresco di nomina alla presidenza della Repubblica.

E adesso, considerando Bolsonaro bollito al punto giusto dalla pessima gestione dell’epidemia da Coronavirus negata e da una crisi economica in via di precipitazione, si prepara a far fuori anche il suo ex capo. Dopo avergli recapitato dimissioni show in diretta tv il 24 aprile. Dopo averlo denunciato per intromissioni indebite nell’attività investigativa della polizia federale di Rio de Janeiro allo scopo di impedire indagini sul figlio. E dopo aver segnalato al Tribunale supremo come prova della colpa presidenziale un video (subito liberato dal sigillo del segreto e diventato virale sui telefonini di tutti i brasiliani) di un Consiglio di governo del 22 aprile scorso in cui il presidente e i suoi ministri se ne escono con affermazioni gravissime sotto il profilo penale e politico.

In quel Consiglio dei ministri Bolsonaro grida: «Non aspetto che si fottano la mia famiglia o i miei amici perché non posso cacciare qualcuno a Rio. Lo caccio e basta. Se non posso, caccio il suo capo. E se non posso cacciare il suo capo, caccio il ministro. Punto e basta». Il ministro dell’ambiente Ricardo Salles suggerisce di cogliere l’«opportunità» offerta dell’attenzione mediatica sul Coronavirus per cambiare le leggi a protezione dell’Amazzonia così da agevolare la deforestazione utile all’agrobusiness. Il ministro dell’educazione Abraham Weintraub, indicando oltre la finestra la sede dell’Alta corte, invita a far «arrestare i giudici cominciando da quelli del Tribunale supremo». E la ministra della famiglia, l’evangelica Damares Alves, chiede il «carcere per i sindaci e i governatori» che hanno imposto la quarantena nei territori di loro competenza contraddicendo la linea presidenziale di ignorare l’epidemia.

Attraverso quel video tutto il Brasile ha visto presidente e ministri insultare e gridare come un gruppo di spavaldi ubriaconi al bar. Un capolavoro. Bolsonaro si ritrova ora accusato da Moro di aver preteso il licenziamento in tronco del capo della polizia federale di Rio de Janeiro, Mauricio Valeixo, perché non lo considerava controllabile nella gestione della raccolta prove in una delle inchieste penali in corso su uno dei suoi tre figli, tutti e tre collaboratori stretti del presidente e tutti e tre indagati a vario titolo per reati che vanno dalla corruzione in combutta con narcos e milizie d’estrema destra alla produzione su scala industriale di notizie false via social.

Moro si è giocato così la parte dell’incorruttibile che – dice lui e per provarlo ha messo a disposizione le chat del suo telefonino con il presidente (Bolsonaro: «Moro, tu hai 271 supercapi di polizia, io ne voglio solo 1, quello di Rio» chat affidata alla Cnn) – pur di non piegarsi alla prepotenza di Bolsonaro avrebbe rifiutato la promessa di una sicura nomina a giudice del Tribunale supremo. In realtà quella possibile nomina all’Alta corte è un trappolone dorato di cui in Brasile si parla da anni. A novembre si libera, per raggiunti limiti d’età del giudice Celso Mello, un posto di nomina presidenziale al Supremo e il pubblico s’aspetta che quel trono tocchi di diritto a Sérgio Moro. Gli undici giudici del Supremo sono le persone più potenti del Brasile, hanno molte più possibilità di influenza concreta di qualsiasi ministro, godono di infiniti privilegi e sono dei personaggi popolarissimi. Le udienze del Supremo sono trasmesse in tv, le loro gesta vengono commentate per giorni come quelle dei protagonisti della telenovela delle venti.
Moro si trova nella fortunata posizione di poter stracciare la carta-regalo di un posto al Supremo perché sa che quella è la via migliore per farlo fuori come concorrente candidato alla presidenza.

Tanto è imprevedibile la battaglia per l’egemonia a destra che gli alti gradi militari non stanno con l’ex colonello Bolsonaro, ma con l’ex giudice Moro. Nonostante Bolsonaro l’abbia rifocillati di regali, da quando è stato eletto s’è occupato fondamentalmente solo di loro. Nonostante la quasi metà di ministri sia composta da militari. E nonostante, in piena crisi Coronavirus, abbia messo a capo del ministero della Salute un ennesimo militare, Eduardo Pazuello, battaglione dei paracadutisti. Una fatica apparentemente inutile perché il grosso delle Forze armate, e soprattutto i vertici dell’Esercito che sono l’élite politica militare, stanno con Moro e si sono premurati di farlo sapere ai principali giornali brasiliani proprio mentre il povero Bolsonaro organizzava una diretta tv circondato dai suoi ministri militari per dire che lui resisterà anche a questo tradimento.

E così, mentre Moro ha tempo di ripassarsi le carte di Mani pulite sulle quali racconta di continuare a studiare – dice da anni d’essere grande ammiratore di Piercamillo Davigo e d’essersi letto tutto quanto ha scritto Antonio Di Pietro – a Bolsonaro tocca scatenare la caccia in Parlamento.  Può contare solo su 50 deputati e per salvarsi da un eventuale impeachment gli servono i due terzi dei 513 voti del Congresso. Sta distribuendo posti di sottogoverno con ricchi budget di spesa a tutto il Centrão, il grande magma del centro politico brasiliano tradizionalmente disposto ad offrirsi a chi paga di più. Portafogli aperto per la potentissima lobby evangelica: alle autorità fiscali sarebbe già arrivata, secondo un’inchiesta del giornale di San Paolo Estadão, la richiesta presidenziale di cancellare i debiti delle comunità evangeliche con il fisco. Per ora 160 milioni di euro. Deus encima de tudo.