Pubblichiamo un estratto del libro Abolire il carcere – Una ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini, di Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Valentina Calderone, Federica Resta (Chiarelettere, pp. 192, 16 euro).

In una prospettiva di avvicinamento all’abolizione del carcere, le pene non detentive dovrebbero rappresentare la soluzione da preferire in linea generale, riservando la prigione ai soli reati non punibili altrimenti, commessi da soggetti la cui pericolosità sociale ne giustifichi una detenzione temporanea. Anche se riservata a questi limitati casi, la pena detentiva dovrebbe comunque essere profondamente riformata nei contenuti e nelle modalità di esecuzione.

Altrettanto (e anzi, ancor più) residuale dovrebbe essere effettivamente la custodia cautelare in carcere. Per questo, proponiamo di seguito un programma minimo di modifiche al sistema penale e penitenziario che si può approvare subito, quale presupposto necessario per l’abolizione del carcere e non certo come termine finale del percorso riformatore da noi auspicato.

1. Il diritto penale come extrema ratio
Il pesce puzza dalla testa, e se non si mette fine all’abuso del diritto penale non si riuscirà mai a ridurre e tantomeno ad abolire il carcere. Se ogni violazione delle regole di convivenza merita una sanzione penale (chi ha provato a contarle parla di circa 35.000 fattispecie penali previste dal nostro ordinamento), è inevitabile che il giudizio sulla loro effettiva gravità si sposti nella definizione della modalità sanzionatoria, innescando una spirale al rialzo nel ricorso alla prigione. Per questo è necessaria un’ampia opera deflattiva del diritto penale, in astratto e in concreto.

La prima modifica deve operare con una depenalizzazione generale e ulteriore rispetto a quella prevista dalla legge 67/2014 e ben oltre il diritto penale bagatellare (quello che tratta i reati minori), sostituendo la sanzione penale con quella amministrativa o civile rispetto a fattispecie non espressive di particolare pericolosità dell’autore e per il contrasto delle quali la misura non penale possa ritenersi sufficientemente dissuasiva. I criteri guida devono dunque essere quelli non solo della proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità del fatto, ma anche della sussidiarietà (ricorso alla sanzione meno afflittiva per garantire il grado di tutela adeguato) e della incongruenza della sanzione penale per fattispecie che una misura amministrativa può comunque contrastare con efficacia.

Anzi, con efficacia a volte addirittura maggiore considerando che all’illecito amministrativo non si applicano gli istituti sospensivi, sostitutivi o alternativi alla pena e si ammette invece la responsabilità solidale, che evita complessi procedimenti di esecuzione coattiva, dall’esito spesso incerto. La depenalizzazione qui suggerita dovrebbe poi essere «compensata» dal rafforzamento della responsabilità delle persone giuridiche, dimostratasi particolarmente efficace nel contrasto della criminalità d’impresa.

2. Abolire l’ergastolo, ridurre le pene che privano della libertà
Disboscato il diritto penale da previsioni illiberali e da inutili superfetazioni, il passo successivo verso l’abolizione del carcere è ridurre drasticamente le previsioni penali, a partire dall’abolizione dell’ergastolo. Escludendo la possibilità di reinserimento sociale del condannato, il carcere a vita contrasta con il principio rieducativo al quale, come qui insistentemente ribadito e secondo il dettato costituzionale, deve ispirarsi la pena.

La Consulta, infatti, con le sentenze 264/1974, 274/1983 e 168/1994, ha escluso l’illegittimità dell’ergastolo proprio per la prevista possibilità che non sia perpetuo, grazie all’applicazione della liberazione condizionale (o della eventuale grazia). Ma va ricordato che l’applicazione della liberazione condizionale è subordinata alla prognosi positiva di ravvedimento del condannato ed è comunque preclusa per i detenuti per reati ostativi. Su 1779 ergastolani, a giugno 2021 gli ostativi nelle nostre carceri erano 1259, ovvero il 70,77 per cento, presumibilmente tutti destinati a morire in stato di detenzione; la liberazione condizionale è stata concessa a un ergastolano nel 2019, a quattro nel 2020, a nessuno nei primi sei mesi del 2021.

Porre un tetto alla durata possibile della pena detentiva, tramite l’abolizione dell’ergastolo, consente di commisurare tutte le pene in base a quello, rimodulandole verso il basso. Non diciamo, come Vittorio Foa, che «nessuna pena detentiva dovrebbe superare i tre, al massimo cinque anni», ma è ragionevole la più moderata delle proposte di Luigi Ferrajoli, secondo cui la reclusione non dovrebbe superare i quindici anni, cui ne potrebbero seguire, a data certa, altri due di detenzione domiciliare e tre di affidamento in prova al servizio sociale. Posto a vent’anni il limite massimo della durata di una simile, articolata sanzione per i reati più gravi, tutti gli altri verrebbero a seguire e una miriade di violazioni meno gravi non avrebbero più il carcere come pena o addirittura non avrebbero più il diritto penale come riferimento.

Un intervento legislativo sul punto è improcrastinabile, soprattutto a seguito della già citata ordinanza 97 del 15 aprile 2021, con cui la Corte costituzionale ha rinviato all’udienza del 10 maggio 2022 la trattazione delle questioni di legittimità costituzionale sollevate – rispetto agli articoli 3, 27 comma 3, e 117 comma 1 della Costituzione – in relazione alla preclusione dell’ammissione alla liberazione condizionale al condannato all’ergastolo per delitti commessi con finalità o metodo mafioso, che non abbia collaborato con la giustizia.

3. Il carcere residuale
Si deve poi procedere a un’altrettanto ampia decarcerizzazione nel codice e nella legislazione penale speciale, limitando le sanzioni detentive ai soli delitti più gravi, che ledano valori rilevanti per la società ed esprimano particolare pericolosità sociale. Attuando anche le indicazioni dei più recenti progetti di riforma del codice penale e valorizzando ulteriormente la strada intrapresa dalla riforma Cartabia, si dovrebbe ampliare in misura significativa la tipologia delle sanzioni, rendendo quelle carcerarie davvero l’extrema ratio. Si avrebbe allora un sistema sanzionatorio articolato come segue:

a) sanzioni a carattere interdittivo, da prevedersi quali pene principali ove presentino un contenuto di afflittività equivalente al danno arrecato, in quanto consentono un’efficace prevenzione del rischio di recidiva. La relativa tipologia va ampliata rispetto a quella oggi prevista a titolo di sanzioni accessorie, anche includendovi misure quali, ad esempio, il divieto di emettere assegni o di utilizzare carte di credito e la revoca o la sospensione della patente di guida;

b) pene pecuniarie, irrogate – estendendo l’innovazione introdotta dalla riforma Cartabia rispetto alle pene sostitutive – secondo un adeguato sistema di tassi o quote periodiche, che permettano di modulare la sanzione in base alle effettive condizioni economiche e patrimoniali del reo, nonché agli obblighi giuridici cui debba adempiere (ad esempio, il mantenimento di famigliari);

c) sanzioni civili proporzionate alla gravità della violazione, alla reiterazione dell’illecito, all’arricchimento dell’autore, all’opera da lui svolta per l’eliminazione o attenuazione delle conseguenze del reato, nonché alla sua personalità e alle sue condizioni economiche. Si dovrebbe prevedere, in particolare, che il danno patrimoniale venga determinato dal giudice in via equitativa e sia disposto a favore della collettività in uno specifico fondo, anche in assenza di costituzione di parte civile, che in molti casi (soprattutto in materia di criminalità organizzata) non è frutto di una libera scelta ma del timore di ritorsioni. Tra le sanzioni patrimoniali da prevedersi in via principale va poi compresa la confisca (anche dell’impiego dei proventi del reato e, ove di essi non sia possibile la sottrazione, di beni di valore equivalente);

d) sanzioni a carattere prescrittivo (con un contenuto anche interdittivo) sul modello dell’affidamento in prova al servizio sociale. Esse dovrebbero consistere nell’imposizione di una serie di obblighi e divieti tali da limitare la libertà di movimento del soggetto, nell’adempimento di ingiunzioni a carattere risarcitorio e riparativo delle conseguenze del reato, nella prestazione – con il consenso del condannato – di lavori di pubblica utilità, nello svolgimento di un programma terapeutico qualora il fatto di reato sia conseguenza di una condizione soggettiva patologica. La soluzione prefigurata dalla riforma Cartabia, a titolo di causa estintiva dei reati contravvenzionali, andrebbe dunque estesa significativamente ed elevata a sanzione principale;

e) sanzioni detentive solo per i delitti più gravi, da eseguirsi presso il domicilio del condannato o, in mancanza, presso appositi luoghi di dimora sociale, limitando la reclusione in carcere ai soli casi nei quali le esigenze di difesa sociale non siano altrimenti tutelabili.

4) Una giurisdizione penale minima
La riduzione in concreto del diritto penale deve realizzarsi anche con strumenti di selezione e modulazione nel processo, capaci di concentrare la sanzione su fattispecie che effettivamente lo richiedano, pur nel rispetto del principio di obbligatorietà dell’azione penale, agendo da un lato sulla procedibilità e dall’altro sulle vicende estintive del reato. In questo senso, vanno estesi i casi di procedibilità a querela, oltre alla previsione dell’estinzione del reato a seguito di condotte riparatorie. Va poi estesa ai delitti l’oblazione (versamento di una somma di denaro), in termini obbligatori almeno per i delitti puniti con la sola pena pecuniaria e facoltativi per quelli puniti in via alternativa o congiunta, previa eliminazione delle conseguenze dannose del reato. Al fine di incentivare questa forma di estinzione del reato, sarebbe auspicabile anche estenderne l’ammissibilità oltre la fase dell’apertura del dibattimento.

Andrebbe poi prevista, come anticipato, una causa di estinzione generale del reato conseguente a condotte riparatorie e conciliative (dando ulteriormente rilievo alle innovazioni introdotte dalla riforma Cartabia), così da declinare le istanze deflattive secondo il modello della giustizia riparativa, capace di valorizzare le esigenze della vittima e di ricomposizione del conflitto. Inoltre, va valorizzata, al di là di quanto già oggi previsto – pur con le estensioni contemplate anche su questo dalla riforma Cartabia – la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto che, oltre a concentrare il processo sugli episodi realmente meritevoli di sanzione, consente di soddisfare le esigenze della vittima, non pregiudicando l’esercizio dell’azione risarcitoria.

5. Niente carcere prima del giudizio
Un terzo dei detenuti nelle nostre carceri è in attesa di giudizio. Non si tratta, peraltro, di un dato episodico o congiunturale, dal momento che le statistiche degli ultimi quindici anni registrano valori addirittura superiori. Tassi così elevati di custodia cautelare in carcere non possono quindi imputarsi a un contingente aumento della devianza (o di quel tipo di devianza che renda opportuno il ricorso a tale misura), ma a una disciplina generale inidonea a limitarne realmente l’applicazione. Le riduzioni nel tasso di ingresso o permanenza in carcere prima del giudizio, conseguenti alle modifiche normative emanate a seguito delle sentenze Sulejmanovic e Torreggiani, sono troppo recenti per valutarne la reale portata «a regime».

Certo è che alcune soluzioni prefigurate dai decreti legge del 2011 e del 2013 andavano nella giusta direzione e meritano di essere ulteriormente ampliate e rafforzate: ovvero la riduzione (ulteriore rispetto a quella già disposta dalla legge 47/2015) dell’ambito di applicazione della custodia cautelare e la maggiore ammissibilità di altre misure nei confronti degli imputati. In tal senso, in particolare, andrebbe esteso il divieto di applicazione della misura custodiale in carcere in ragione della previsione della pena che sarà irrogata (oggi fissata in tre anni: soglia troppo bassa e con troppe esclusioni per tipo di reato o per indisponibilità di un luogo destinato agli arresti domiciliari). In ogni caso sarebbe opportuno istituire luoghi di «dimora sociale» modellati sulle caratteristiche dell’abitazione – come suggerito dalla Commissione ministeriale presieduta da Francesco Carlo Palazzo –, presso cui eseguire la misura cautelare personale o la detenzione domiciliare nei confronti di quanti non dispongano di un proprio domicilio.

In analogia con altri ordinamenti europei, nonché sulla base di indicazioni della stessa Cedu, andrebbe poi introdotto l’istituto della «prestazione di cauzione», quale misura cautelare autonoma (da applicare da sola o unitamente ad altre misure non custodiali), che consiste nel deposito di una somma di denaro, generalmente rateizzabile, commisurata alle condizioni economiche dell’imputato e alla gravità del fatto. Inoltre, per ridurre drasticamente (e in prospettiva eliminare del tutto) la custodia cautelare, va esteso l’uso, attualmente troppo marginale, delle misure interdittive, parificando il loro regime di durata a quello proprio delle misure coercitive non custodiali. Per i casi nei quali si ritenga indispensabile mantenere la custodia cautelare in carcere, si dovrebbero istituire controlli d’ufficio periodici sulla necessità della sua prosecuzione e disporne l’estinzione (ferma l’adottabilità di altra misura) qualora essa abbia raggiunto una misura pari alla metà, o al massimo ai due terzi, della pena irrogabile.

6. Garantire le alternative al carcere in corso di esecuzione
La pena della detenzione, sia in carcere sia a casa, dovrebbe prevedere la sua predeterminata conversione in sanzioni non limitative della libertà personale. Sinché si scelga di mantenere il carcere, è necessario potenziare le misure alternative alla detenzione, ampliandone la tipologia, estendendone l’ambito di applicazione ed eliminando le condizioni che la impediscono, e offrendo a ciascun condannato la possibilità di svolgere un percorso di reinserimento sociale al termine della privazione della libertà.

Al contrario, la conversione in pena detentiva della sanzione non detentiva dovrebbe essere ammessa solo a fronte di gravi e plurime violazioni delle prescrizioni a essa inerenti, e comunque secondo un criterio di gradualità che, a fronte di infrazioni occasionali e non gravi, privilegi la conversione in sanzioni meno afflittive, quali ad esempio quelle detentive non carcerarie. In ogni caso, va abrogato il divieto di concessione di misure alternative (o sostitutive, per nuova condanna) al detenuto la cui pena sospesa sia stata convertita in reclusione, a seguito di violazione delle prescrizioni inerenti alla misura sostitutiva. Anche sotto questo profilo, la riforma Cartabia va nella giusta direzione.

7. Diritti in carcere
Nella misura in cui il carcere sopravviva, per i reati più gravi seppure per pene di minore durata, esso deve diventare un luogo presidiato da diritti e garanzie, unica condizione affinché svolga una funzione in qualche modo rieducativa nei confronti di coloro che vi sono costretti. Diritto alla salute e alla cura del corpo, diritto alle relazioni famigliari, amicali e sessuali, diritto a un’adeguata offerta di istruzione, formativa e lavorativa, diritto alle pratiche di culto: tutti diritti che non possono essere compressi per alcuna ragione finanziaria o organizzativa. L’ordinamento, l’organizzazione, il patrimonio e il bilancio dell’amministrazione penitenziaria vanno rivisti a tal fine, per garantire alle persone detenute l’effettività di tutti i diritti comunque esigibili in condizione di privazione della libertà, sulla base del principio della minimizzazione della sofferenza penale cui si ispira il nostro ordinamento costituzionale.

A tutela dei diritti fondamentali dei detenuti, il reato di tortura, introdotto dalla legge 110/2017 – pur con alcuni difetti di configurazione –, rappresenta sicuramente uno strumento utile, soprattutto se ne verrà fornita un’interpretazione lungimirante. Nel pieno rispetto dei diritti fondamentali dei detenuti, dovrebbero infine essere introdotti il «numero chiuso» e le «liste d’attesa», codificando un’ulteriore ipotesi di rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena quando essa debba svolgersi in condizioni contrarie al senso di umanità, cosa che la Consulta ha dichiarato di non poter determinare per propria sentenza, dal momento che tale scelta implica una discrezionalità politica inevitabilmente rimessa al legislatore.

8. Umanizzare il trattamento penitenziario e superare i circuiti differenziati
Il diritto al trattamento, che spetta a tutti i detenuti, impone il superamento delle classificazioni penitenziarie limitative dei diritti, a partire dalla previsione di una «alta sicurezza», peraltro non contemplata dalla legge e dal regolamento penitenziario. Andrebbe poi fortemente ridotto l’ambito di applicazione del «carcere duro» (art. 41-bis), riservandolo ai casi di estrema e comprovata indispensabilità. E limitando l’efficacia temporale dei provvedimenti e delle eventuali proroghe, potenziando le garanzie giurisdizionali per gli interessati e, soprattutto, circoscrivendo le restrizioni previste solo ed esclusivamente all’unica finalità voluta dalla legge: la rottura delle relazioni con l’organizzazione criminale di appartenenza.

Ciò deve portare all’eliminazione di tutte le ulteriori forme di afflizione, privazione, limitazione di diritti che non siano indirizzate a quello scopo, diversamente da quanto oggi accade. Andrebbe infine abrogato l’isolamento come sanzione accessoria alla detenzione, eventualmente attribuendone la competenza alla magistratura di sorveglianza, a fronte di condotte tali da esporre a serio pericolo gli altri detenuti (già l’art. 7 dei Principi fondamentali sul trattamento dei detenuti adottati dall’Onu nel 1990 invitava gli Stati a minimizzare se non abolire del tutto l’isolamento).

Le concrete modalità di esecuzione della pena e di gestione della vita penitenziaria hanno, infatti, una rilevanza determinante anche in termini di efficacia rieducativa della stessa misura detentiva. Come sottolineato nell’articolo di Riccardo De Vito, «L’indiscutibile vantaggio dell’adozione di sistemi aperti emerge in modo nitido dallo studio – proposto in questo obiettivo – che Daniele Terlizzese e Giovanni Mastrobuoni hanno condotto confrontando l’espiazione della pena a Bollate, carcere aperto per eccellenza, con quella effettuata in altri Istituti. Dall’applicazione di un metodo statistico rigoroso, tale da eliminare tutte le possibili fallacie e distorsioni di cui sono accusate le proiezioni in materia di recidiva, emerge un risultato univoco: “la sostituzione di un anno in un carcere ‘chiuso e duro’ con un anno in un carcere ‘aperto e umano’ riduce la recidiva di 6-10 punti percentuali”».

9. Abolire il carcere minorile. Mai più bambini in carcere
A più di vent’anni dalla riforma della procedura penale minorile che ha reso residuale la detenzione dei minori autori di reato, è arrivato il tempo di pensare seriamente al definitivo superamento di questa forma di punizione, che in Italia riguarda solo alcune centinaia di ragazzi e ragazze i quali potrebbero avere altre opportunità di sostegno nel loro percorso di reinserimento sociale. Come anticipato alla fine del capitolo «Il carcere non è sempre esistito», il 15 gennaio 2022 su 316 detenuti in Ipm, i minori erano solo 131.

D’altro canto, una delle conseguenze più inaccettabili del carcere degli adulti è la presenza di bambini dietro le sbarre, in cella con madri detenute prive di un domicilio o ritenute socialmente pericolose e, pertanto, non meritevoli di misure domiciliari e neppure dell’assegnazione agli Istituti a custodia attenuata (Icam) o a case-famiglia protette (peraltro oggi rarissime). Finché il carcere non verrà del tutto abolito, quindi, almeno per le madri (o i padri, in assenza dell’altro genitore) di bambini di età inferiore ai dieci anni la detenzione in carcere (a titolo di pena o di custodia cautelare) va del tutto esclusa (anche oltre i limiti di pena residua, da espiare) e sostituita con la detenzione domiciliare. In assenza di dimora o in presenza di esigenze di sicurezza particolari, si deve prediligere l’invio a una casa-famiglia protetta o, ove questa non fosse disponibile, l’assegnazione a un Istituto a custodia attenuata per detenute madri: entrambe le strutture dovrebbero essere potenziate ed estese.

Nell’immediato si dovrebbe comunque: a) consentire l’applicazione della sospensione facoltativa dell’esecuzione della pena anche alle condannate madri di bambini da zero a dieci anni; b) in caso di esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, prevedere, quale unica modalità di applicazione delle misure cautelari personali, che le madri di bambini sotto i dieci anni vengano assegnate a case-famiglia protette, con possibilità di rimanervi anche oltre i dieci anni del bambino, qualora sia ritenuta comunque preferibile sotto il profilo psicologico la convivenza con il genitore; c) con particolare riferimento alle detenute straniere, consentire la revoca dell’espulsione adottata a titolo di misura di sicurezza, misura alternativa o sostitutiva della pena detentiva, quando essa rischi di pregiudicare lo sviluppo psicofisico del minore presente in Italia; d) prevedere adeguati stanziamenti per la realizzazione degli Icam e, preferibilmente, delle case-famiglia protette.

Va dunque ammesso il ricorso alle case-famiglia protette, ove la madre di un figlio minore di sei anni non disponga di un luogo in cui scontare i domiciliari, per evitare che la misura sia per questo eseguita in carcere; la custodia cautelare in carcere deve essere ammessa solo negli Icam e il differimento della pena deve essere previsto come derogabile solo per la reclusione in un tale istituto o per l’ingresso in una casa-famiglia protetta, non per il carcere. Si tratta, del resto, di un problema che non impone chissà quali investimenti o difficoltà, se si considera che al 31 ottobre 2021, al seguito delle loro (19) madri in carcere vi erano solo 22 bambini.

10. Abolire le misure di sicurezza detentive e affrontare il disagio psichico in condizioni di restrizione della libertà
Aboliti i vecchi Ospedali psichiatrici giudiziari e cancellata per legge la possibilità di eseguire gli «ergastoli bianchi» a danno dei prosciolti per vizio di mente (ma, si ricordi, che quella abolizione per ora è solo sulla carta), andrebbe completamente rivista la materia delle misure di sicurezza detentive. Senza entrare nel merito delle questioni relative all’imputabilità dei malati di mente e delle misure loro riservate, occorre eliminare ogni altra misura di sicurezza detentiva che, nella pratica, si risolve in un prolungamento ingiustificato della pena. Occorre infine vigilare sull’attuazione della legge che abolisce gli Opg, affinché le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza sanitarie (Rems) siano effettivamente sussidiarie a interventi di cura e sostegno da garantire sul territorio e a domicilio.

La legge 81/2014 ha, infatti, certamente introdotto innovazioni radicali e determinanti, oltre che nel sancire la chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari, nel prevedere un termine per l’applicazione delle misure di sicurezza detentive (prima di durata indeterminata), nell’escludere l’handicap sociale (i fattori di fragilità socioeconomica) dal novero dei parametri in base ai quali valutare la pericolosità sociale e nell’individuare nel ricovero in strutture a carattere terapeutico e non eminentemente custodiale (le Rems, appunto) la misura applicabile ai soggetti prosciolti per infermità mentale totale o parziale, la cui attuale pericolosità non ne consenta il solo affidamento a programmi terapeutici individualizzati. Resta, tuttavia, la difficile attuazione della legge, testimoniata dalle liste d’attesa per l’accesso alle strutture e che sconta soprattutto la carenza dei servizi psichiatrici territoriali, ai quali invece la nuova disciplina affida un ruolo centrale, e una cultura giurisdizionale non sempre appieno consapevole delle potenzialità terapeutiche della riforma psichiatrica.

Più complessivamente, va affrontato in maniera adeguata il problema del disagio psichico, per il quale la prima versione dei decreti legislativi attuativi della riforma Orlando, sulla scorta delle indicazioni della Commissione Pelissero, proponeva alcune soluzioni. La strada da preferire non è, comunque, quella di ricreare – ad esempio attraverso le Articolazioni per la salute mentale (Asm) – istituzioni nelle istituzioni, ma approntare servizi psichiatrici multiprofessionali (con psichiatri, psicologi, terapisti della riabilitazione, infermieri…) che prendano in carico i pazienti con problemi di salute mentale (senza necessariamente confinarli in sezioni ad hoc), ove le loro condizioni non siano incompatibili secondo i parametri della sentenza 99/2019.

Per quanto riguarda le Rems, a fronte del fenomeno delle liste di attesa dovuto all’indisponibilità dei posti nelle strutture, un deciso monito al legislatore è stato rivolto dalla sentenza 22/2022, con cui la Consulta pur nell’ambito di una pronuncia d’inammissibilità ha sottolineato l’«urgente necessità di una complessiva riforma di sistema, che assicuri, assieme: un’adeguata base legislativa alla nuova misura di sicurezza, secondo i principi poc’anzi enunciati [ovvero garantendo l’effettività della tutela dell’“intero fascio di diritti fondamentali che l’assegnazione a una Rems mira a tutelare”]; la realizzazione e il buon funzionamento, sull’intero territorio nazionale, di un numero di Rems sufficiente a far fronte ai reali fabbisogni, nel quadro di un complessivo e altrettanto urgente potenziamento delle strutture sul territorio in grado di garantire interventi alternativi adeguati rispetto alle necessità di cura e a quelle, altrettanto imprescindibili, di tutela della collettività (e dunque dei diritti fondamentali delle potenziali vittime dei fatti di reato che potrebbero essere commessi dai destinatari delle misure); forme di adeguato coinvolgimento del ministro della Giustizia nell’attività di coordinamento e monitoraggio del funzionamento delle Rems esistenti e degli altri strumenti di tutela della salute mentale attivabili nel quadro della diversa misura di sicurezza della libertà vigilata, nonché nella programmazione del relativo fabbisogno finanziario, anche in vista dell’eventuale potenziamento quantitativo delle strutture o degli strumenti alternativi».

Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Valentina Calderone, Federica Resta

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