Il pasticcio libico rimane tale. E anche quando i fatti darebbero tutte le ragioni alle scelte del Governo, perché la ragion di Stato imponeva di rimandare Almasri a Tripoli senza perdersi in troppe pastoie, l’esecutivo riesce a dare di sé una idea incerta e poco convincente.

Chi ha seguito le duplici informative Nordio e Piantedosi, prima alla Camera e poi al Senato – per quella ridondanza dei due Parlamenti identici e sovrapposti – torna a casa con l’idea che ciascuno dei due ministri abbia svolto un suo compitino senza consultarsi con l’altro. Nordio è frontale, nella sua contestazione degli atti della Cpi. La Corte Penale Internazionale, d’altronde, lascia spesso quello che trova, senza poteri effettivi e con iter procedurali tanto sgrammaticati da risultare oscuri. E non meno intorbidite appaiono le dinamiche e le tempistiche con cui quegli atti sono stati emanati.

Il ministro della giustizia ha spiegato – con dovizia di particolari – come abbia ricevuto «una specie di documento, del tutto contraddittorio, più volte modificato, che non avrei mai potuto trasmettere alla Procura». Il titolare degli interni ha detto, non senza contraddizioni, che la pericolosità di Almasri non consentiva di trattenerlo in Italia.

Forse è mancato il coraggio di rivendicare gli accordi con la Libia, difficili da digerire ma importanti. Certamente non c’è stata una regia generale. Quella che nessuno avrebbe potuto incarnare meglio di Giorgia Meloni, che l’Aula ha invocato a gran voce. Se la premier non c’era, va detto che non c’era neanche l’opposizione. C’erano a malapena gli iscritti a parlare, sotto agli occhi dei tanti studenti in visita, loro sì, composti e seri: la fotografia perfetta di una maggioranza confusionaria e di una opposizione inconsistente. Sotto lo sguardo attonito del paese reale.

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.