Per Giuliano Cazzola ho simpatia. Ha una storia significativa, è bravo e soprattutto è uno che non le manda a dire. Non mi hanno sorpreso, muovendo dalle minacce a Bentivogli, le cose che ha scritto sull’intesa di dieci anni fa a Pomigliano tra società e sindacati. Minacciare qualcuno per le posizioni assunte nell’esercizio della propria funzione è ovviamente da respingere nella maniera più ferma. È però fuorviante rileggere attraverso le minacce quella vicenda dolorosa e difficile. Intanto non mi pare di ricordare che in quelle settimane convulse la grancassa suonò a sostegno della resistenza degli operai della Fiom. Che semmai conobbero, in quei giorni amari, una solitudine paurosa che mai prima un segmento di classe operaia aveva vissuto nel nostro Paese. È vero, come scrive Cazzola, che quasi nessuno si è preoccupato in questi anni di raccontare come poi lì la fabbrica davvero è cambiata. Solo che tra quei pochi che lo hanno fatto ci sono proprio gli operai della Fiom che quella intesa avversarono e che videro il proprio sindacato espulso di netto da ogni relazione aziendale.

Quando un paio di anni fa, per completare un breve libretto d’inchiesta (che mi preoccuperò di spedire a Cazzola), andai a Pomigliano, quegli operai mi raccontarono degli investimenti realizzati, mi parlarono con serietà dei miglioramenti, mi illustrarono la nuova organizzazione del lavoro, la World Class Manufacturing, il sistema di organizzazione firmato dal giapponese Hajime Yamashina. Poi mi descrissero anche l’altra faccia della medaglia. I 40 minuti di pausa che diventano 30, la mensa spostata alla fine del turno, i 18 turni settimanali col sabato lavorativo e così via. «Non ci manca nulla – mi disse uno di loro – potremmo stare in azienda l’intera giornata, abbiamo campi di calcio e di bocce ma c’è meno tempo per affetti e famiglia».

Qui si coglieva la difficoltà di un assoggettamento non più solo materiale e manuale ma di sussunzione totale del lavoro vivo nel progetto d’impresa. L’azienda, mi dissero mesti, non deve negoziare più nulla, ha costruito e imposto un contratto di cui può disporre con la discrezionalità più assoluta. Non era la “chiacchiera giuslavorista” cui si riferisce Cazzola, che peraltro non va certo messa in soffitta, ma la preoccupazione matura per rapporti di forza culturali e sociali ormai così sbilanciati. Fino alla consapevolezza di agire in un clima economico e sociale che ti rende difficile parlare all’esterno, a un giovane precario che è senza contratto e che magari in un anno non mette insieme neanche un’ora di lavoro.

Il timore per il futuro dell’impianto era in cima ai loro pensieri. Raccontavano, perfino con punte di nostalgia, di un passato in cui a Pomigliano si produceva su due reparti di montaggio, dei marchi Alfa con i quali per anni il gruppo Fiat è riuscito a tenersi a galla, di 147 e 156, vetture di grande successo premiate con volante d’oro e come auto dell’anno. E delle battaglie per portare a Pomigliano la Panda. Furono facili profeti a spiegare che con un solo modello e una sola linea di montaggio il lavoro a Pomigliano non è garantito e ora infatti Fca comunica che il sito di Pomigliano ancora non riparte. Questa maturità, questo vissuto anche doloroso, non emergono dalle cose che ha scritto Cazzola. Tese soltanto, mi pare, a tracciare steccati tra buoni e cattivi. Un vissuto che invece è lì a testimoniare la vera storia di quell’accordo e di quella battaglia perduta. E di quanto quell’orgoglio operaio sia indispensabile per governare i complessi processi futuri.