«Compagni, non sarei sincero se vi dicessi che sono rimasto persuaso…». Con questa locuzione un po’ involuta Pietro Ingrao diventava ufficialmente e pubblicamente il principale dissidente nel Partito comunista italiano, ruolo che in un certo senso mantenne sino alla fine della sua vita politica. Era il 1966, una vita fa, ed era una novità in un partito dove il dissenso era sempre rimasto sotto il tappeto, come la polvere.

Il dissidente, nella sinistra, ha sempre avuto un suo fascino: quello del coraggio di dire no dentro partiti educati a sentire risuonare solo i sì. Ingrao, Riccardo Lombardi (nel Psi, dove pure tutto era più chiaro, anche uno come lui era emarginato), e prima Antonio Giolitti che era talmente in dissenso da lasciare il Pci nel 1956, e prima ancora Valdo Magnani e Aldo Cucchi (i «magnacucchi» venivano spregiativamente chiamati) espulsi perché rei di criticare il Pci «da destra» e per questo definiti da Togliatti «due pidocchi nella criniera di un cavallo». E nel 1969 ci fu il gruppo del Manifesto che aveva «osato» organizzarsi all’interno del partito per esternare un dissenso nettissimo con il risultato di essere buttati fuori (e pure Ingrao, ironia della storia, approvò la cacciata).

L’ultimo dissidente fu Armando Cossutta contro Enrico Berlinguer sul giudizio sul socialismo reale: giravano i rubli di Mosca contro il segretario del Pci ma Cossutta il filosovietico perse lo stesso, e di brutto. In anni più recenti, finito quel partito, anche a sinistra ci si aprì alle correnti organizzate, alle opzioni diverse, ai voti parlamentari in dissenso: persino Rifondazione comunista, l’ultima trincea di quella storia, dovette sopportare le minoranze interne. Nessuno veniva espulso anche se votava contro il governo di cui il suo partito faceva parte. Invece ai tempi non era per niente facile dire «non sono d’accordo» e se lo si diceva nelle riunioni questo non doveva essere comunicato «fuori»: si chiamava «centralismo democratico».

Sembra mille anni fa. Eppure ancora oggi nella sinistra c’è un più o meno piccolo grumo «comunista» (detto senza polemica), una voglia di colpetto di freno alla libertà, un malcelato fastidio per chi intralcia le decisioni assunte. Una volta il dissenso era tutto politico. Sulle questioni internazionali soprattutto. Oggi che nel Pd coesistono dieci linee su qualunque problema, e che dunque anche tecnicamente è impossibile che qualcuno cacci qualcun’altro, la questione riguarda la libertà di coscienza sui temi etici, terreno forse ancora un tantinello nebuloso ma di certo da considerare libero da odiose misure ritorsive di carattere politico. La disciplina di partito intesa come quella che si adotta in una caserma è figlia dell’idea rivoluzionaria secondo la quale «il partito ha sempre ragione» per cui o sei d’accordo o te ne vai (o vieni emarginato o «declassato»). Ma nel 2024 non si sente davvero bisogno del centralismo democratico che peraltro è seppellito da tempo. Tantomeno di una sua parodia.