Era il 20 febbraio 2020 quando, intorno alle 20:00 di sera, all’ospedale di Codogno, risultava positivo il primo tampone per il coronavirus. Era il test di Mattia Maestri, 38enne, il primo caso di contagiato italiano diagnosticato. Codogno, comune di circa 16mila abitanti, in Lombardia, si prendeva le prime pagine, le aperture dei telegiornali.

Maestri aveva accusato una brutta polmonite. L’epidemia che era esplosa in Cina, nella città di Wuhan, probabilmente partita da uno dei wetmarket, sembrava ancora lontanissima. In quei giorni si organizzava la Milano Fashion Week e si continuava a giocare la Seria A di calcio. Una ventina di giorni prima due turisti cinesi erano risultati positivi al tampone all’Ospedale Spallanzani di Roma.

L’intuizione di sottoporre l’uomo al tampone per il virus fu della dottoressa Annalisa Malara, anestesista di turno di terapia intensiva, nominata Cavaliere della Repubblica dal Capo dello Stato Sergio Mattarella. Il 39enne non era mai stato in Cina. Forse il contagio, venne ipotizzato, a una cena con un amico tornato dall’Asia da poco, che però risultò negativo al tampone.

Mattia, primo paziente cui venne diagnosticato il covid in Italia, fu intubato e ricoverato in terapia intensiva. Era uno sportivo, un maratoneta, manager della multinazionale Unilever. Codogno divenne osservato speciale delle cronache e dell’attenzione dei media. La Wuhan italiana. Allo stesso modo Maestri divenne un simbolo. Lo scorso gennaio, in uno studio pubblicato sul British Journal of Dermatology dall’Università Statale di Milano, la scoperta di un nuovo paziente 1: una 25enne con dermatosi atipica, il risultato da una biopsia del novembre 2019. Il simbolo resta però Mattia Maestri.

A un anno da quella serata che ha sconvolto l’Italia Mattia è guarito, ha visto nascere con la moglie Valentina la figlia Giulia, è nata all’ospedale Buzzo di Milano, ha perso il padre proprio per il covid-19. “Ci sono stati milioni di morti accertati. Sono dispiaciuto nel vedere una negazione su un fatto del genere – ha detto al Pirellone, in un incontro alla Regione Lombardia dello scorso settembre, ricordando i giorni in terapia tra l’ospedale di Codogno e il Policlinico San Matteo di Pavia – Ho passato 3 settimane in terapia intensiva, in ricovero, morto. Per me respirava solo la macchina e non avevo rapporti”. Al Corriere della Sera ha dichiarato: “Da questa mia esperienza le persone devono capire che la prevenzione è indispensabile per non diffondere il virus. Io voglio dimenticare questa brutta esperienza e tornare alla normalità”.

Vito Califano

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