In un paese notoriamente caratterizzato da una pressione fiscale che ChatGPT avrebbe voglia di comparare alla “famigerata voracità di un drago affamato”, la discussione su una nuova imposta patrimoniale –come se l’IMU sugli immobili diversi dalle prime case già non lo fosse- rischia di diventare l’ennesimo passo nella direzione sconsiderata di fare un favore a chi questa pressione fiscale vuole soltanto aumentarla. Peraltro, bisognerebbe notare la scarsa o nulla frequenza con cui vengano menzionate la crescita economica e la produttività da parte dei baldi alfieri di una nuova imposta patrimoniale, in quanto più che altro stanno solleticando gli istinti di chi fa dell’invidia sociale una professione di vita.

E dall’altra parte qualcuno potrebbe cadere nell’inganno insito nel promettere una contemporanea riduzione delle imposte sul reddito, quando il rischio consiste per l’appunto nel ritrovarci –qualora il PD e qualche sua stampella destra o sinistra vincessero le prossime elezioni politiche- in un nuovo fardello per gli sfiancati portafogli dei pagatori di tasse (qui lo dico e qui lo ripeto: la traduzione letterale di “taxpayer” è espressione molto migliore di “contribuente”).

Avete altresì notato quanto poco si parli di revisione ed efficientamento della spesa pubblica? I dati disaggregati per settore mostrano chiaramente come le pubbliche amministrazioni italiane contribuiscano in maniera nulla o persino negativa all’andamento già fiacco della nostra produttività nel medio-lungo termine. Quindi, secondo una prospettiva che nella finanza pubblica italiana risale a Conigliani e Puviani, poi direttamente ripresa dal premio Nobel James Buchanan, la predisposizione di una nuova imposta –in questo caso un’imposta patrimoniale- fornisce un alibi di risorse aggiuntive per alimentare la spesa pubblica. In questo modo si rimanda in avanti all’infinito ogni progetto politico che metta insieme l’efficientamento e la riduzione di questa spesa con la spinta alla crescita della produttività e del reddito, grazie alla promessa credibile di ridurre in maniera permanente e consistente il peso fiscale sui cittadini.

Da scienziato delle finanze sono ben conscio del fatto che qualcuno voglia far credere che l’aumento della pressione fiscale –ad esempio tramite un inasprimento dell’IMU, oppure con una patrimoniale ordinaria aggiuntiva- sia sempre giustificato a motivo dell’idea caricaturalmente keynesiana secondo cui ogni spesa pubblica faccia bene al reddito e alla crescita economica (l’antidoto a questa interpretazione di Keynes sta nel leggere il passaggio in cui egli attacca il pensiero comunista: “Come posso seguire un credo il quale, dando una preferenza al fango rispetto al pesce, esalta il becero proletariato rispetto al borghese e all’intellighèntsia che –pur con tutti i loro difetti- rappresentano la qualità della vita e contengono i semi di ogni miglioramento umano?”).

A ciò si aggiunge l’idea moraleggiante della tassazione punitiva rispetto “ai ricchi”, dimenticando che la ricchezza dei veri ricchi è principalmente finanziaria e spesso si annida in strutture societarie opache come trust e fondazioni collocati in paradisi fiscali più o meno esotici, non già in uno o due appartamenti affittati a famiglie o studenti. Quindi si fanno passare nel dimenticatoio del silenzio i veri ricchi, per i quali una congrua e sensata tassazione non può che passare attraverso il coordinamento dei paesi a livello internazionale, per punire la piccola e media borghesia, più visibile, più innocua, più esposta.

Ma lasciatemi concludere citando Francesco Forte e la sua profetica tesi di laurea scritta nel lontano 1951, qui a Pavia. Il tema è quello delle rendite fiscali, cioè dei vantaggi creati a favore di gruppi ed individui politicamente connessi e avvantaggiati grazie alla spesa pubblica stessa, e in generale all’intervento dello stato nell’economia. Qui non stiamo parlando di stato sociale, cioè pensioni, sanità, istruzione, sussidi di disoccupazione ed edilizia residenziale pubblica: stiamo parlando di rendite, di trattamenti di favore ancora più pingui, nella forma di dirigenti iper-pagati, consulenze generose, appalti ancora più generosi.

Se pensate che le uniche rendite siano quelle che derivano dall’accumulo di patrimoni piccoli, medi o grandi nel settore privato dell’economia, non è improbabile che siate stati influenzati da chi vorrebbe farvi dimenticare il lato pubblico delle rendite, cioè quelle rendite fiscali create dalla spesa pubblica e ognora giustificate dalla caricatura italiana del pensiero keynesiano di cui dicevo sopra, in un tremendo misturone di dirigismo e paraculaggine spinta.