L’ultima delegazione entra nella Sala della Biblioteca di Montecitorio alle 18 e 30 in punto. La segretaria Schlein è in tailleur rosso ciliegia – armocromisti subito all’opera: passione, coraggio, temerarietà? chissà – insieme ai capigruppo Boccia e Braga e Alessandro Alfieri, responsabile riforme nella segreteria dem. Dall’altra parte del tavolo, la premier è attorniata da una squadra di calciotto a 8: i due vicepremier Salvini e Tajani, la ministra per le riforme Casellati, il ministro per i Rapporti col Parlamento Luca Ciriani, i sottosegretari Fazzolari e Montovano (uno solo non è possibile: si marcano a vista) e il costituzionalista di fiducia Francesco Saverio Marini. Otto contro una media di quattro. Segno di forza o debolezza? Di sicuro nessuna delle varie anime della maggioranza si vuole perdere una parola sul grande e delicatissimo tema delle riforme costituzionali.

A sera, però, quando il grande palcoscenico resta vuoto e sta per essere smontato, i contenuti sui bloc notes sono scarsi. Anzi, scarsissimi. La premier ha ascoltato alzando alcuni paletti: “Abbiamo bisogno di un sistema più stabile che è anche la più potente riforma economica. Ecco perché per me riformare lo Stato è la priorità”.
Non serviva montare la scenografia riservata alle consultazioni per la formazione del governo per arrivare a sapere quanto già detto e scritto in queste giornate di attesa. A parte che non è ben chiaro cosa voglia la maggioranza – tra elezione diretta del capo dello Stato (Fdi) o del presidente del Consiglio (Fi e Lega) c’è di mezzo un oceano di variabili – non toccava certo alle opposizioni fare proposte. Nessuno dei gruppi accetta il “prendere o lasciare” (“possiamo fare anche da soli” ha detto Meloni ben sapendo che alle fine della corsa ci sarebbe un referendum che non ha mai perdonato arroganze). Tranne il Terzo polo che vuol vedere le carte sull’elezione diretta del premier-sindaco-d’Italia, gli altri gruppi pongono una prioritaria questione di metodo. Vale a dire: lavorare con una Bicamerale o una Commissione dove tutte le forze politiche siano equamente rappresentate. Quando la segretaria del Pd alle 18 e 30 in punto entra nella sala della Biblioteca è stata informata che Giuseppe Conte ha aperto al metodo della bicamerale. Le frullano in testa alcune domande: “Che gioco sta facendo il leader dei 5 Stelle? Mi vuole forse isolare a sinistra?”.

Il Pd dell’era Schlein sembra essere contrario per principio ad ogni tipo riforma. “Non è l’urgenza del Paese, non ci piace lo schema di gioco per cui la premier ha già deciso e noi bisogna scegliere se A o B. E se a noi stesse bene la Zeta?”.
E però la segretaria dovrebbe fare un veloce ma accurato ripasso del peso che il riformismo ha avuto nel centrosinistra prima ancora che nascesse il Pd. Una tradizione che sarebbe un’abiura e un suicidio politico non riconoscere. Una storia che, per brevità, facciamo iniziare con Roberto Ruffilli, il politologo e senatore della sinistra Dc che nel 1987 ebbe la visione di scrivere un libro che s’intitolava “Il cittadino come arbitro” dove si teorizzava la necessità di un premio di maggioranza alla coalizione nata sulla base di un accordo preelettorale. Fantascienza per l’Italia della Democrazia Cristiana. Ruffilli fu ammazzato dalle Br il 16 aprile dell’anno dopo. Molti anni dopo (19 marzo 2002) la stessa sorte toccò all’economista Marco Biagi, un altro cattolico di sinistra che ebbe la capacità di capire e il coraggio di scrivere libri in cui si teorizzavano nuove forme di organizzazione del lavoro. Il terrorismo, anche quello di sinistra, non ha mai sopportato il riformismo.

La tesi numero uno dell’Ulivo di Romano Prodi (correva l’anno 1996) e il documento di sintesi del centrosinistra (relatore Cesare Salvi, anno 1997) della Bicamerale di Massimo D’Alema, quella fallita dopo aver “mangiato” la crostata a casa di Gianni Letta, puntavano entrambe ad un premierato forte, o con il nome del premier indicato sulla scheda e con più poteri e addirittura con il semipresidenzialismo. C’è una lunga storia di riformismo nel centrosinistra. “Dalla segretaria – dice oggi un riformista doc come il professor Ceccanti (e forse per questo punito alle ultime elezioni tanto che non è stato rieletto, ndr) – mi attendo sul terreno istituzionale una sostanziale e doverosa continuità con il modello di premierato non elettivo che ha espresso il centrosinistra sin dall’Ulivo del 1996”. Anche Ceccanti individua il filo rosso delle riforme nella lezione di Ruffilli: “Le coalizioni italiane se non sono incentivate con premi e collegate ad alcuni vincoli tendono a non durare una legislatura e a non rispettare un rapporto stringente tra consenso, potere e responsabilità”. Insomma, il messaggio per Schlein è chiaro: al tavolo delle riforme ci si deve sedere tutti. E poi si tratta. Chi si chiama fuori, è fuori dalla storia. Ma la segretaria è arrivata alla consultazione per dire no, “non è questa ora la nostra priorità”. È Montecitorio, ma sembra tanto l’Aventino.

Avatar photo

Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.