«Ora ho trovato un senso ed una misura, so che la pena è il sale della vita e che la gioia è nel guardare il cielo per caso e riconoscere l’azzurro». Il giovane Claudio Martelli citò questa bellissima frase di Tagore al convegno del Partito socialista di Rimini, che si tenne dal 31 marzo al 4 aprile 1982, in un intervento diventato famoso (quello sui meriti e i bisogni) e che rappresentò un’ottima sintesi della ricerca politico-culturale dei socialisti in quel tempo di grandi trasformazioni. Un discorso, a rileggerlo oggi, attualissimo soprattutto per chi ha tuttora in mente l’idea non proprio banale di cambiare questo paese nel senso di una maggiore giustizia sociale.

Bene ha fatto dunque Martelli, ancora oggi attento osservatore della realtà italiana (e possiamo immaginare con quanto disincanto), a fare uscire questo “Il merito, il bisogno e il grande tumulto” (La Nave di Teseo) che contiene il testo di quel lontano discorso, tra una lunga introduzione più politica e una serie di capitoli dal forte impianto teorico, dedicati – per così dire – all’attualizzazione del discorso dell’82 nel contesto del “grande tumulto” della post-globalizzazione. Non si troveranno qui considerazioni su Giorgia Meloni, Elly Schlein o Giuseppe Conte: non è “quel” tipo di libro, anche se ovviamente l’autore ha ben presente la situazione italiana e soprattutto quella internazionale. Piuttosto Martelli “cerca ancora”, per usare un vecchio titolo di un libro dell’economista Claudio Napoleoni. E questa ricerca è una vera ossessione culturale e politica che riprende il filo di Rimini.

All’epoca, il discorso dell’allora numero due del Psi rappresentò uno sforzo innovativo persino maggiore rispetto alla già notevole elaborazione degli intellettuali socialisti (basti pensare alla ricca fucina di Mondoperaio). Malgrado le lodi di Berlinguer e De Mita, nella sostanza i comunisti fecero un po’ finta di niente (tranne la componente vicina a Giorgio Napolitano), mentre la Democrazia cristiana – alleata ma allarmata dal protagonismo dei socialisti – si occupava più della politica di tutti i giorni che dei massimi sistemi. E poi in fondo quelli erano affari della sinistra. Martelli infatti tentava di immaginare da sinistra una teoria che tenesse conto della fine della centralità operaia, anticipando di parecchio la famosa “terza via” blairiana.

Oggi – come quarant’anni fa – si tratta di disegnare una strada nuova per riformare il capitalismo, ponendo al centro queste due categorie che vanno in qualche modo pensate insieme: il merito e il bisogno. Ed è forse sulla prima – ora che viene brandita come una clava dalla destra italiana, magari per denegare diritti sociali acquisiti – che è interessante insistere. «Il merito – scrive Martelli – è qualcosa che si può acquisire, imparare e guadagnare sicché non una sparuta minoranza, non una ristretta élite ma molte persone se non tutte possono acquisire meriti aggiungendo a una dotazione media di intelligenza l’impegno, la fatica e i sacrifici che occorrono». Dunque il merito non può e non deve essere prerogativa di classe, dei “figli di”, ma va pensato come appannaggio potenzialmente di tutti.

Ma per rendere credibile questa idea bisogna prima rimuovere gli ostacoli che la società capitalistica erige verso i più deboli, incrociando la problematica dei bisogni (ma fuori dagli ideologismi francofortesi). E qui siamo pienamente sul terreno del riformismo: «Il problema principale della giustizia sociale in Italia era ed è quello di redimere, di recuperare, di emancipare un’area di povertà troppo vasta e troppo intensa ristabilendo contemporaneamente su un altro fronte, quello delle professionalità, un equo scambio tra prestazioni professionali, reddito e tempo liberato dal lavoro».

Martelli affronta di petto le varie difficoltà che tutte le correnti di pensiero afferibili alla cultura di sinistra hanno via via evidenziato nel corso dei decenni. E in questa complessa ricognizione si avverte il senso di una insoddisfazione teorica – se così si può dire – dati i vari fallimenti storici e le insufficienze teoriche anche delle culture a Martelli più vicine, quella socialdemocratica e quella liberaldemocratica. Il libro è una meticolosa disamina del buono e soprattutto del cattivo che hanno caratterizzato il mondo e l’Italia in questi quarant’anni: alla fine pare resistere il pensiero di John Rawls, perlomeno nella sua idea fondamentale del «compensare la sfortuna» degli “have not” tendendo all’obiettivo dell’eguaglianza di opportunità.

È una teoria che per Martelli va oltre il liberalismo, ne spacca gli argini. Ed è su questa strada che si staglia il liberalsocialismo di Carlo Rosselli, forse il punto più alto dell’elaborazione riformista del Novecento. Eppure – chiuso il volume martelliano – non si sfugge all’impressione che la strada sia ancora scoscesa; che sia necessario, appunto, “cercare ancora” per «riconoscere l’azzurro» nel cielo della storia.