Protezione e respingimenti: bentornata Costituzione
Come cambia il decreto sicurezza: ripristinate due misure di civiltà
Mentre scrivo questo articolo è attesa in Senato, non senza forti tensioni politiche, la definitiva conversione in legge del DL 130/2020 che ha riformato in profondità (senza però abrogarli) i due decreti voluti dal sig. Salvini che nell’ultimo biennio hanno disseminato insicurezza e tensione sociale in tutto il Paese. Senza la pretesa di convincere nessuno vorrei spiegare l’importanza del cambiamento portato dalla disposizione più importante contenuta nel DL 130/2020, ovvero il ripristino del terzo status giuridico di protezione oltre la condizione di rifugiato prevista dalla convenzione di Ginevra del 1951 e la protezione sussidiaria introdotta dall’Unione Europea nel 1995.
La pesante azione di propaganda che aveva accompagnato l’abrogazione della protezione umanitaria, terza forma di protezione, presente nell’ordinamento fin dal 1998, aveva presentato tale protezione come un indebito regalo dato ai migranti che arrivano in Italia. Le opinioni sono libere in democrazia ma coloro che sostenevano quello di cui sopra omettevano di riferire un piccolo dettaglio: ovvero che questo (da taluni) detestato terzo status di protezione deriva nientemeno che dalla nozione di diritto d’asilo sancito all’art. 10 terzo comma della Costituzione quale diritto fondamentale della persona alla quale “sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione”. Come chiarito da una lunga evoluzione giurisprudenziale i due status internazionali (rifugio e protezione sussidiaria) non possono quindi esaurire la portata del diritto d’asilo costituzionale.
La vecchia protezione umanitaria precedente alla scure salviniana imponeva alla amministrazione e al giudice di riconoscere tale protezione tutte le volte in cui ricorrevano “seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello stato italiano”. Non quindi una tipizzazione precostituita e rigida, foriera di distorsioni, bensì un “catalogo aperto” suscettibile di continue evoluzioni normative e giurisprudenziali. Di cosa parliamo in buona sostanza? Dell’obbligo da parte dello Stato di riconoscere una protezione non solo a chi è perseguitato ai sensi della Convenzione di Ginevra o rientri nelle limitate casistiche della protezione sussidiaria ma anche a chi fugge da una condizione di violenza generalizzata, dalla mancanza di libertà fondamentali come la libertà personale, la libertà di circolazione, il diritto di difesa e di uguaglianza di fronte alla legge, la libertà politica, la libertà di sciopero, il diritto di ricevere una istruzione, di accedere a cure sanitarie etc.
Il D.L. 130/2020, anche grazie a un fondamentale emendamento votato dalla Camera che ha chiarito il coordinamento tra due disposizioni che nel testo iniziale licenziato dal Governo erano scollegate, riprende l’impostazione di catalogo aperto che era proprio della vecchia protezione umanitaria, pur ora ribattezzata “speciale” usando un aggettivo forse non molto felice. Alcuni commentatori, facendo osservare che la nuova norma non fa più riferimento ai seri motivi umanitari ma solo agli obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano, ritengono che la nuova norma sia più restrittiva di quella previgente al 2018; comprendo ma non condivido del tutto tale lettura perché ritengo che la presenza di un serio motivo umanitario richiami sempre un obbligo giuridico di tutela della dignità e della sicurezza della specifica persona coinvolta.
Le modifiche importanti non si fermano però qui dal momento che la normativa rinforza anche in modo deciso i divieti di espulsione e respingimento alla frontiera chiarendo senza possibilità alcuna di diversa interpretazione che è tassativamente vietata l’espulsione e il respingimento “di una persona verso uno Stato qualora esistano fondati motivi di ritenere che essa rischi di essere sottoposta a tortura o a trattamenti inumani o degradanti. Nella valutazione di tali motivi si tiene conto anche dell’esistenza, in tale Stato, di violazioni sistematiche e gravi di diritti umani”. Andrà data concreta attuazione a tali divieti evitando che provvedimenti di allontanamento possano essere adottati in modo automatico e disattento alle reali conseguenze sulla vita delle persone coinvolte e ciò dovrà valere in modo particolare alle nostre frontiere, oggi luoghi di assai incerto diritto (basti qui citare nuovamente l’orrenda pagina dei tentati respingimenti in mare e dei respingimenti a catena lungo la rotta balcanica).
Infine viene introdotta una assoluta novità nel nostro ordinamento che si pone come un vero cambio di paradigma poiché prevede che non può essere adottato alcun allontanamento dal territorio nazionale (riconoscendo alla persona lo status di protezione speciale) nel caso ciò “comporti una violazione del diritto al rispetto della propria vita privata e familiare” con la sola eccezione in cui ricorrano ragioni di sicurezza nazionale, ordine e sicurezza pubblica. Che cos’è questo obbligo di rispetto della vita privata e famigliare che rinvia direttamente all’art. 8 della Cedu (Convenzione europea dei diritti dell’Uomo)?
Per comprenderlo a fondo bisogna guardare a cosa è sempre avvenuto fino a oggi con la norma vigente (il Testo Unico sull’Immigrazione, non i decreti Salvini) rigida e per molti versi irrazionale che non prevede reali ed efficaci canali di ingresso regolare per lavoro e precarizza il soggiorno degli stranieri poiché, seguendo il modello della strada a “senso unico” lo straniero può perdere la regolarità di soggiorno per molte ragioni ma non può mai tornare indietro, né può far valere il suo inserimento positivo in Italia pur a seguito di ingresso irregolare, salvo le discrezionali finestre aperte talvolta dai provvedimenti di regolarizzazione.
Da decenni dunque lo straniero può avere fatto un lungo e positivo percorso di vita nel nostro Paese, vi può vivere una piena vita di relazione con la comunità, avere una vita famigliare, può andare a scuola, imparare una lingua e un mestiere etc. ma se per qualsiasi motivo (come ad esempio la difficoltà a raggiungere il livello minimo di reddito un anno, un periodo più lungo del solito di precarietà lavorativa) perde il permesso di soggiorno tutto viene annullato senza alcun rispetto per il percorso positivo di vita fatto in precedenza. Ora la norma impone un nuovo riequilibrio tra esigenze legate al pur necessario rispetto delle procedure amministrative e la valutazione della reale condizione della persona straniera sotto il profilo della sua vita privata e famigliare dovendo sempre essere valutato il suo effettivo inserimento sociale in Italia e la durata del suo soggiorno nel territorio nazionale.
Si prevede anche una verifica dell’esistenza o meno di legami familiari, culturali o sociali con il Paese d’origine ma lo straniero non dovrà più dimostrare, come in passato, che in caso di rientro in patria verrebbe esposto a una situazione di estrema mortificazione della sua dignità per mancanza radicale di risorse di vita, per mancanza di supporti di ogni tipo e assenza di legami famigliari e sociali poiché il peso preponderante della valutazione, ai fini del riconoscimento della protezione speciale, poggia sul riconoscimento del positivo percorso di vita fatto in Italia che non può essere annullato o disconosciuto se non in presenza di forti ragioni di tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica.
Non sarà facile fare rispettare la nuova norma facendo penetrare questo profondo cambio di paradigma culturale nell’operato quotidiano di amministrazioni pubbliche abituate da decenni ad operare in altra direzione, ma farlo sarà necessario per dare a tutto il Paese una nuova coesione sociale.
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