Inverno demografico. Questa è, secondo l’Istat, la condizione in cui versa il nostro paese. A partire dal 1964, il tasso di fertilità si è dimezzato ed è in diminuzione pressoché costante. Non si tratta di un tema unicamente italiano: secondo i dati Eurostat, nel 2019 i nati nell’Unione Europea sono stati 4,17 milioni, con una tendenza di continua riduzione sin dal 2008. Tuttavia, è un tema marcatamente italiano: dal 2015, il nostro paese si colloca in ultima posizione per natalità tra i paesi europei. Identificare le cause alla radice di questo fenomeno è certamente reso ancor più complesso dalla molteplicità di fattori che possono incidere sulle scelte legate alla procreazione.

A partire dal supporto alle famiglie, ovvero dalle infrastrutture sociali, che nel nostro paese sono tradizionalmente scarse. Pensiamo agli asili nido: nell’anno 2018-2019, sono disponibili solo 25,5 posti per ogni 100 bambini che ne avrebbero diritto, una percentuale ben distante rispetto alla soglia minima del 33% fissata dall’Unione Europea come obiettivo da raggiungere entro il 2026 (e non dimentichiamo anche in questo ambito i persistenti divari territoriali del nostro paese: ad esempio, nella provincia di Caltanissetta la percentuale di copertura di asili nido è al 6,2%, a Cosenza del 7,7%, a Caserta del 6,6%). E, in assenza di asili nido, a rimanere a casa sono prevalentemente le madri. In un circolo vizioso sotto il profilo non solo della produzione di reddito e quindi di Pil per il paese, ma anche di contrazione della natalità.

In maniera solo apparentemente controintuitiva, infatti, i dati mostrano una correlazione positiva tra il tasso di occupazione femminile ed il tasso di natalità. Nei paesi dell’Europa mediterranea, come ad esempio Italia, Spagna e Grecia, il tasso di natalità è molto basso (inferiore ad 1,4 figli per donna) e lo è anche il tasso di occupazione femminile (inferiore al 60%). Al contrario, nei paesi scandinavi o anche in quelli baltici, dove il tasso di occupazione è superiore al 70%, la natalità media è superiore a 1,7 figli. Rammentiamo che, per il nostro paese, quello dell’occupazione femminile è uno storico ostacolo alla crescita. Nel 2020, meno di una donna italiana su due (il 49%), tra quelle in età lavorativa ovvero compresa tra i 15 e i 64 anni, risultava occupata. A livello europeo, è il dato peggiore dopo la Grecia, nella quale il tasso di occupazione femminile si attesta al 47,5% (e lontanissimo dalla Germania, nella quale ha raggiunto il 73,2%).

Quindi, l’Italia è un paese che non cresce, sia in termini economici che in termini demografici. Da dove ripartire? Ad esempio, dall’occupazione femminile. L’Istat ci rivela che nel 2016, il 45% delle donne in età fertile (18-49 anni) non aveva figli. Ma a non volerne affatto era meno del 5%, anche perché, spesso, le coppie posticipano la decisione di procreare, attendendo una maggiore stabilità economica, finché a volte non è più possibile. E allora, occorre sostenere l’ingresso, la permanenza e la progressione delle donne sul mercato del lavoro. Ma anche, immaginare una nuova genitorialità. Che non sia, appunto, appannaggio unico delle donne. Ma che riconosca pari dignità alla figura paterna, come avverrebbe ad esempio equiparando il congedo di paternità obbligatorio (attualmente, nel nostro paese pari a 10 giorni) a quello di maternità obbligatorio (che invece ammonta a 5 mesi, ovvero 150 giorni). E se ci sembra impossibile, basta guardare alla vicina Spagna, dove a partire dal 1 gennaio il congedo di paternità obbligatorio è equivalente a quello di maternità. Perché senza una rivoluzione culturale, non si riparte.