“Sembra Capodanno”. Dicono così, felici e stravolti dalla risacca del giorno dopo, i lulisti stremati dalla campagna elettorale più difficile della loro vita. È stata durissima, hanno vinto per 50,9% contro 49,1%: nemmeno due punti percentuali di distanza dall’uscente, e furente, Jair Bolsonaro. Che s’è subito rinchiuso nel palazzo presidenziale senza parlare. Sono stati i suoi alleati, pressati da telefonate di cancellerie internazionali a tappeto, a riconoscere la vittoria di Lula. Lui aspettava di vedere se e cosa fossero disposti a fare gli alti comandi militari. Niente, al momento.

L’avenida paulista, la strada politica di San Paolo, lunedì all’alba aveva ancora i segni della festa. Domenica notte è stata gonfia di persone che ballavano per la gioia. Mai vista tanta gente. Tanta quanta ce n’era nel 2003, quando per la prima volta nella storia del Brasile un partito di sinistra arrivava al governo. Era il partito dei lavoratori (Pt) fondato dall’ex tornitore Lula Ignazio Da Silva, anima del sindacato unitario brasiliano, la Cut. Ed eccolo qua, dodici anni dopo, capelli bianchissimi, lacrime di gioia e quella eterna faccia da figlio di poveri (una faccia che, da sola, fa la metà dei suoi voti) il settantottenne Lula. Alza in segno di trionfo di nuovo sulla folla festante quella mano sinistra senza il mignolo lasciato decenni fa dentro un tornio. Quella per cui in campagna elettorale Bolsonaro, per non nominarlo, l’ha chiamato sempre “Nove dita” (o “Ex carcerato”, o “Bandito”, o “Bugiardo”).

Torna al Palacio de la Alvorada, simbolo del governo brasiliano, il presidente operaio. Con le sue nove dita e un capitale politico personale che nessun uomo politico contemporaneo può vantare. Lula, l’eterno, l’inaffondabile, sopravvissuto a sei processi penali e alla fucilazione per via giudiziaria del Partido dos Trabalhadores da lui fondato nel 1980 ha cominciato a tessere la trama della sua sesta campagna elettorale appena uscito di galera dopo un arresto illegale avvenuto in mondovisione con gli elicotteri delle tv a volteggiare sopra la carovana di auto andata a prelevarlo a casa, arresto illegale arrivato quasi alla fine di una vicenda giudiziaria fatta di smitragliate di accuse tutte cucite su misura per arrivare alla sua persona ed iniziate nel 2005 (nel 2005!) ossia nemmeno due anni dopo il debutto del suo primo governo, quando il Brasile era osannato dall’Economist per l’incredibile boom economico che aveva tolto milioni di persone dalla povertà. Boom dovuto all’aumento dei prezzi delle materie prime di cui il Brasile è grande esportatore e durato meno di un decennio. Ma in quel decennio il Brasile è risorto.

Qualcuno quegli incredibili profitti piovuti dal cielo li ha saputi ridistribuire in politiche sociali imitate poi in molti Paesi del mondo, dall’Argentina al Sud Africa. E quel qualcuno era Lula. Il governo Lula che si insedierà a inizio 2023 non dovrà solo rimettere in piedi un paese sfasciato, tirare fuori dalla miseria 33 milioni di persone e ricostruire da zero un compromesso possibile tra esigenze dell’agrobusiness e sopravvivenza di quel che resta della Foresta Amazzonica. Dovrà inventarsi un modo per rendere inoffensiva la destra estrema che rappresenta la quasi metà dei votanti al ballottaggio e che è la prima forza al Congresso. E che s’è presa San Paolo, il cuore economico del Brasile. Governato spesso dalla destra, ma stavolta lì ha vinto la destra estrema. A San Paolo Bolsonaro ha visto la sua piccola rivincita perché è stato eletto governatore Tarcisio de Freitas, militare, suo ex ministro, e per di più nemmeno paulista ma carioca, ossia nato a Rio de Janeiro.

Il fronte che ha sostenuto Lula (otto formazioni politiche oltre al Pt e ai Sem terra, il più grande movimento politico del mondo per numero di attivisti) dovrà riuscire a mantenersi tale, e dio sa come farà, per affrontare senza esserne travolto un dato politico pesante da digerire: una quasi metà del Brasile non ha semplicemente votato a destra, no, magari. Il 49,1 degli elettori ha votato Bolsonaro, un estremista retrogado ed oscurantista che ha fatto del non governo il suo modo di stare alla presidenza: ha negato la pandemia di Covid (“gli italiani muoiono, per forza, sono un paese di vecchi come un condominio di Copacabana, qui non succederà niente” diceva mentre si accatastavano le bare all’aperto a Manhaus), ha negato la crisi economica di fronte alla disoccupazione dilagante, ha negato persino l’esistenza della fame in Brasile (“sfido io a portarmi qui un brasiliano che non ha mangiato ieri” ha detto di fronte a sconcertati corrispondenti stranieri).

Quel 49,1% a Bolsonaro è la prova tragica del fatto che la destra moderata in Brasile non esiste. La destra brasiliana è feroce, razzista, pronta a votare in massa Bolsonaro dopo averlo visto all’opera negli ultimi quattro anni. Questo è il dato politico delle elezioni, prima ancora della ennesima resurrezione politica di Lula che conserva intatta, dopo una vita al centro della vita pubblica del continente latinoamericano, l’aura di cui gode da sempre. Quella dell’essere di uno dei sette figli di una famiglia in miseria del Pernambuco, emigrato a sette anni nella periferia di San Paolo, venditore ambulante, lavapiatti. A 14 anni operaio in fabbrica. A 19 l’iscrizione al sindacato, gli scioperi, l’arresto durante la dittatura, la nascita del Pt.

La guerra giudiziaria che è riuscita a togliere di mezzo Lula dalla corsa alle elezioni presidenziali del 2018 per le quali era favorito con quell’arresto show e con quella detenzione di un anno e mezzo, illegali entrambi, è stata una campagna furiosa e vittoriosa sempre per più di un decennio, ma ha subito un colpo d’arresto quando è stato stabilito che non era imparziale il giudice che a ridosso delle presidenziali ha spalancato le porte del carcere a Lula da Silva, liberando così la strada a Jair Bolsonaro. Quel giudice era Sergio Moro.

La risalita di Lula è cominciata quando sono stati pubblicati da un sito d’inchiesta, vicenda assai oscura, il contenuto di parte dei messaggi audio scambiati tra il coordinatore della pubblica accusa nel principale processo a Lula, Deltan Dallagno, e Sergio Moro ai tempi in cui era ancora giudice di prima istanza nella procura di repubblica di Curitiba. Moro, che al momento della pubblicazione degli audio era ministro di Bolsonaro (quello fu il premio del neopresidente al giudice per avergli tolto di mezzo il candidato favorito alle elezioni) era il giudice di primo grado al processo contro Lula e quindi era in quel processo chiamato a giudicare le prove portate dalla pubblica accusa contro l’ex presidente. La legge brasiliana vieta ovviamente al magistrato giudicante di interferire nella acquisizione delle prove che poi sarà chiamato a giudicare.

I due invece, si deduce con evidenza dal contenuto dei messaggi, si scambiavano infinite informazioni. Moro, risulta dalle conversazioni, consigliava passo passo i pm del pool. Spiegava cosa andasse raccolto e cosa no. Suggeriva testimoni. Si diceva insoddisfatto dell’evidenza di alcune prove. Dettava mosse, indicava errori, guidava i passi dell’indagine. Nei messaggi lo si sente gioire col pm per il successo mediatico e per le ricadute politiche dell’inchiesta. Rallegrarsi via chat con se stesso e con i pm per il gran terremoto politico provocato. “Complimenti a tutti noi” scriveva. Tutto ciò, in base se non altro all’articolo 254 del codice del processo penale brasiliano che definisce esplicitamente “giudice sospetto” il magistrato che “consigli qualsiasi delle due parti” (accusa o difesa), consente ai legali dei condannati in quei processi di considerare il giudice “non imparziale”. E di chiedere quindi l’annullamento del giudizio.

Le chat, essendo state probabilmente acquisite illegalmente anche se il sito dice di averle ricevute da fonte anonima ma non da un hacker, non sono state utilizzabili contro i protagonisti delle conversazioni. Ma sono risultate materiale prezioso per la difesa di Lula che è ricorsa davanti a tutti i tribunali internazionali possibili per denunciare la violazione del diritto dell’imputato ad essere condannato da un giudice imparziale. Ciò non ha risolto i guai giudiziari di Lula, ma ha iniziato a crearne di giganteschi, politici innanzitutto, al suo nemico giurato Sergio Moro, che ad aprile ha ritirato la sua candidatura per la presidenza della repubblica (eh sì, ci aveva provato perché da giudice-sceriffo poi superministro della legge e dell’ordine era più popolare di Bolsonaro e si apprestava a fargli le scarpe) ed ora s’è acquattato (in via provvisoria) in uno scranno da eletto coi voti della destra.

Moro fin da subito dopo lo scandalo non ha negato la autenticità dei messaggi divulgati. Non ha fatto cenno alla gravissima violazione di legge che, in tutta evidenza, parlando in quei termini con i pm ha commesso. È apparso stordito, come se ritenesse una eventualità impossibile che le sue conversazioni potessero non restare eternamente segrete. Ha solo detto che è del tutto normale che giudici e pm si parlino durante le inchieste. Poi muto. Ma una volta saltato fuori che c’è stato un accordo per far condannare Lula in secondo grado, e renderlo così incandidabile, gli ingranaggi della macchina perfetta che negli ultimi quindici anni ha spianato la dirigenza politico imprenditoriale del Brasile decapitando aziende e partiti si sono inceppati.