Lula o Bolsonaro. Si vota al ballottaggio delle presidenziali e il risultato è incerto. La scelta non è soltanto tra sinistra e destra. È tra rimettere il Brasile nelle mani dell’inventore del riformismo latinoamericano. Liberista in economia e abile come un giocoliere nella ridistribuzione della ricchezza. Il furbissimo sindacalista che fece sobbalzare Barack Obama in un corridoio londinese: “Invidio e amo quest’uomo! È il politico più popolare della Terra!” (Obama al summit del G20 a Londra del 2009).

Oppure lasciarlo al presidente uscente. Un ex capitano dell’esercito la cui comprovata capacità è stata finora una sola, ma molto utile nel Brasile iperconnesso: saper usare le reti sociali come un nerd quattordicenne pur essendo lui un rozzo pistolero tutto Bibbia, vacche e pallottole. Commento sincero di uno della cerchia ristretta di Lula ieri pomeriggio: “Diciamo a tutti che vinciamo, ma non ne siamo sicuri, la possibilità di perdere è tecnicamente possibile”. Dove quel “tecnicamente” sa di fifa blu. Lula dal primo turno del 2 ottobre è uscito in vantaggio. Con 57 milioni di voti. Il 48,43%. Bolsonaro è arrivato al secondo posto ma con un sorprendente 43,2%, 51 milioni di voti. Costretto a rincorrere quindi, ma con il vantaggio psicologico d’aver sballato tutti i sondaggi della vigilia che gli davano almeno otto punti percentuali di meno. Tanto da aver fatto accarezzare a Lula la speranza di vincere al primo turno con qualcosa in più del 50%.

Miracolo mancato dal fondatore del Partito dei lavoratori (Pt) per un pugno di schede. Miracolo riuscito nella storia del Brasile democratico soltanto all’ex presidente Fernando Henrique Cardoso, l’ex rivale storico di Lula, il liberale FHC, diventato in questi ultimi anni di bolsonarismo oscurantista e retrogrado il miglior supporter del suo ex nemico. Sulla carta i voti andati al primo turno agli esclusi (Simone Tenet 4,18% e Ciro Gomes 3,5%) dovrebbero andare tutti a Lula. Ma al ballottaggio si rimescola tutto, le percentuali saltano, si ricomincia daccapo. Lula in questi ultimi giorni ha fulminato chiunque abbia provato a dimostrargli che Bolsonaro per rimontare dovrebbe prendersi almeno il 70% dei voti andati a Gomes e alla Tenet, oltre ad avere riconfermati tutti i suoi.

Sei milioni di voti di differenza tra lui e Bolsonaro sono pochi. Troppo pochi per giocare con le proiezioni. Per questo il vecchio Lula Da Silva ha tre grandi incubi: i nulli, le bianche e la possibilità che chi non ha votato stavolta voti e scelga Bolsonaro. Il voto è obbligatorio in Brasile, ma per finta. Basta inviare una autogiustificazione da spedire anche via email e l’assai improbabile possibilità di ricevere una sanzione per non essersi recati alle urne è scongiurata. La variabile imponderabile è la porzione di astenuti al primo turno che potrebbe decidere di andare alle urne domani. Il Pt ha impostato una campagna contro l’astensione, convinto che più gente va alle urne e più aumenta il vantaggio di Lula su Bolsonaro. Ma non è detto che gli astenuti al primo turno siano in maggioranza potenziali elettori lulisti.

Lula è al suo quarto ballottaggio (è già andato al secondo turno nel 1989, nel 2002 e nel 2006) è stato candidato alla presidenza della repubblica sei volte e ha avuto due mandati (2003-2010). Lula ha vinto in 14 stati, Bolsonaro in 12. Si confermano dalla parte dell’ex capitano dell’esercito tutto il Brasile del sud (bianco) e il feudo di Rio de Janeiro, dove il voto è controllato dagli evangelici e dalle milizie che hanno fatto dello stato carioca la roccaforte della destra estrema. La rete delle chiese evangeliche, quasi tutte bolsonariste, può riuscire a moltiplicare i voti per il presidente uscente. La potenza delle comunità evangeliche è impossibile da arginare. Sono delle vere e proprie sette e costituiscono lo zoccolo duro della destra più retrograda. Si contendono con le milizie (un esercito informale di ex militari a volte al soldo dei narcos e a volte dei narcos rivali) il controllo del territorio delle favelas e dei suburbi, e politicamente sono alleate delle milizie dalla parte di Bolsonaro.

Si tratta di una destra assai temibile, una destra popolare, non oligarchica. Sono un esercito fatto di militanti gratuiti a disposizione. La destra estrema è la prima forza in parlamento. Nella camera bassa ha la assoluta maggioranza, al Senato no. Già nelle due ultime legislature il Congresso era nerissimo. Già alle penultime elezioni i sindacalisti erano spariti dagli scranni dell’Aula lasciando il posto a un’orda di predicatori ed ex militari di varia provenienza. Ogni ottimistica previsione dei brasiliani progressisti è turbata oggi da un’ombra: quel 55% di elettori che nel ballottaggio del 2018 votarono Bolsonaro dopo quattro anni di governo di estrema destra non ha cambiato idea in massa. Altrimenti Bolsonaro non avrebbe preso 51 milioni di voti lo scorso 4 ottobre.

Anche per questo incombe il timore di come potrebbero, a una eventuale vittoria di Lula non accettata da Bolsonaro, reagirei militari, infilati dall’attuale presidente ovunque nei consigli di amministrazione delle grandi imprese pubbliche e nell’ossatura del governo e dello Stato. Nei contatti avuti con i vertici militari, agli emissari di Lula è stato detto chiaro chiaro che, nel caso di una sua vittoria, la garanzia di non belligeranza da parte degli alti in grado, tutti a lui ostili, l’avrà solo se non sfiorerà le norme fatte approvare da Bolsonaro al Congresso nel 2019 che fanno dei militari (e poi dei poliziotti perché a loro sono state estese in un secondo momento) un mondo a parte blandito da privilegi economici di ogni tipo. Le caserme per la vigilia sono in allerta.