Bolsonaro esiste (come esiste Donald Trump). Violento, ciclotimico, quasi impresentabile. Ma con 51 milioni di elettori. È stata questa la brutta sorpresa per l’ex presidente Lula da Silva, in testa con 57 milioni di voti (il 48,43%) alle elezioni brasiliane di domenica. Ma con l’attuale presidente di ultradestra al 43,2%. Al secondo posto ma ben oltre quel 31% pronosticato da tutti i sondaggi della vigilia che avevano fatto accarezzare all’ex presidente, leader della sinistra latinoamericana e fondatore del partito dei lavoratori, la speranza di vincere al primo turno con il 50% ed evitare così il ballottaggio.

Miracolo riuscito nella storia del Brasile democratico soltanto all’ex presidente Fernando Henrique Cardoso, l’ex rivale storico di Lula, il liberale FHC, diventato in questi ultimi anni di estrema destra al governo un lulista scatenato, il miglior supporter del suo ex nemico. Il ballottaggio invece ci sarà. Il 30 ottobre. L’attesa sarà tesissima, la violenza politica ha avuto in questi mesi di campagna livelli mai raggiunti nemmeno al primo voto post dittatura militare (1964-1985). Lula è favorito, ma l’inaspettato pieno di voti ha avuto sui bolsonaristi occulti un effetto eccitante da non sottovalutare. Sulla carta i voti andati ai perdenti (a Simone Tenet, quarto posto con il 4,18 e a Ciro Gomes con il 3,5%) dovrebbero andare tutti a Lula. Bolsonaro per rimontare dovrebbe prendersi almeno il 70% dei voti andati a Gomes e alla Tenet, oltre ad avere riconfermati tutti i suoi. Operazione in teoria assai improbabile. Ma ci sono i nulli, le bianche e la possibilità che chi non ha votato – il voto è obbligatorio, ma basta inviare una autogiustifi cazione – stavolta voti e scelga Bolsonaro.

Lula ha detto ai suoi: tranquilli, è solo una proroga di campagna. Ma lui non è tranquillo per niente. È al suo quarto ballottaggio (è già andato al secondo turno nel 1989, nel 2002 e nel 2006) è stato candidato alla presidenza della repubblica sei volte e ha avuto due mandati (2003-2010). Sa che sei milioni di voti di differenza tra lui e Bolsonaro sono pochi, sono molti meno di quelli previsti dalle peggiori sue ipotesi della vigilia. Lula vince in 14 stati, Bolsonaro in 12. Si confermano dalla parte dell’ex capitano dell’esercito tutto il Brasile del sud (bianco) e il feudo di Rio de Janeiro, dove il voto è controllato in gran parte dagli evangelici e dalle milizie che hanno fatto dello stato carioca la roccaforte della destra estrema. Il principale timore lulista è che da qui al 30 ottobre la rete delle chiese evangeliche compia il miracolo di moltiplicare i voti per il presidente uscente. Un’indagine fatta tra gli evangelici prima del primo turno dava il 46% di quei voti a Bolsonaro e il 27% a Lula. La potenza delle comunità evangeliche è impossibile da arginare. Sono delle vere e proprie sette e costituiscono lo zoccolo duro della destra più retrograda. Attraverso la religione forniscono identità, protezione, una rete sociale di riferimento.

Si contendono con le milizie (un esercito informale di ex militari a volte al soldo dei narcos e a volte dei narcos rivali) il controllo del territorio delle favelas e dei suburbi, ma politicamente sono alleate delle milizie dalla parte di Bolsonaro. Si tratta di una destra assai temibile. una destra popolare, non oligarchica. Oscurantista e antilibertaria. L’unica libertà individuale che contemplano le sette evangeliche è quella di portare armi. Per il resto si nutrono della adorazione collettiva di un dio vendicativo, ma festaiolo, da omaggiare con musica, balli e canti. Una religiosità elementare, totalizzante, fatta di mille divieti e tanta militanza. Sono potentissime anche e soprattutto perché offrono un loro welfare, intessuto di ricatti e superstizioni, ma efficace, molto efficace in aree dove la presenza dello Stato si manifesta quasi solo con i carri armati dell’esercito e con i fucili da guerra dei battaglioni di élite della polizia. Sono un esercito fatto di militanti gratuiti a disposizione di Bolsonaro, da utilizzare all’evenienza. Altro dato di domenica: la destra estrema è la prima forza in parlamento. Già nelle due ultime legislature il Congresso era nerissimo. Già alle penultime elezioni i sindacalisti erano spariti dagli scranni dell’Aula lasciando il posto a un’orda di predicatori ed ex militari di varia provenienza.

Il Parlamento uscente è per metà composto da debuttanti, eletti da formazioni senza storia, una trentina di partiti dalla ideologia indefinibile, ma quasi tutti di estrema destra. Il Partito social liberale che ha candidato nel 2018 Bolsonaro (approdato al Psl dopo aver visto la sua candidatura rifiutata da altri a destra) nel 2014 aveva un solo deputato, nel Parlamento uscente ne ha 52 (militari, poliziotti, un ex attore porno, un ex atleta olimpico, un’agente diventata famosa per un video in cui spara a un sospetto ladro e diventata in questi anni una star tanto che domenica è stata rieletta). Il gruppo parlamentare principale è rimasto comunque quello della sinistra, del Partito dei lavoratori, ma non in grado numericamente di contrastare il partito trasversale dell’ultradestra che somma i voti della famosa banda “Bibbia, vacche e pallottole” (religiosi, latifondisti e imprenditori dell’agrobusiness e lobby delle armi). Il risultato del primo turno fa apparire chiaro non solo che quel 55% di elettori di Bolsonaro (del ballottaggio del 2018) non ha quattro anni dopo cambiato idea in massa.

E che quindi ci sono 51 milioni di persone contente di votare un pistolero che ha fatto del non governo il suo stile di esercizio del potere. Che ha negato l’esistenza di un’emergenza Covid mentre si accatastavano le bare a cielo aperto perché i cadaveri non entravano più nelle camere mortuarie degli ospedali. Che ha negato l’esistenza di una crisi mentre tutti gli indici economici precipitavano. Che ha negato l’esistenza di una classe sociale di poverissimi in Brasile (il famoso “Non venitemi a dire che qualcuno in Brasile soffre la fame”). I 51 milioni di voti di domenica per Bolsonaro vogliono dire anche che sulla testa di Lula c’è ora la pistola puntata della pasciuta casta dei militari, infilati da Bolsonaro ovunque nei consigli di amministrazione delle grandi imprese pubbliche e nell’ossatura del governo e dello Stato.

Nei contatti avuti con i vertici militari durante la campagna, agli emissari di Lula è stato detto chiaro chiaro che, nel caso di una sua vittoria, la garanzia di non belligeranza da parte degli alti in grado, tutti a lui ostili, l’avrebbe avuta solo giurando di non voler sfiorare quelle norme fatte approvare da Bolsonaro al Congresso nel 2019 che fanno dei militari (e poi dei poliziotti perché a loro sono state estese in un secondo momento) un mondo a parte blandito da privilegi economici di ogni tipo: aumento del salario del 13% e pensioni da sogno innanzitutto.

Il principale interlocutore dei fedelissimi di Lula mandato in avanscoperta in territorio nemico è stato il senatore Jacques Wagner, tra i candidati a ministro della Difesa nel caso di vittoria di Lula. I capi delle forze armate non nascondono che si sentirebbero “costretti e a disagio” nel ritrovarsi Lula capo supremo delle forze armate. L’ex presidente in campagna elettorale ha detto chiaramente di voler togliere 8mila militari dal posto di comando nella amministrazione pubblica regalatogli da Bolsonaro. Nelle prossime tre settimane gli sarà spesso ricordato questo numeretto.