Le previsioni: 48% contro il 31%
Elezioni Brasile, la mossa del cavallo di Lula per battere Bolsonaro ed evitare il ballottaggio

Sinistra storica contro destra estrema. Elezioni presidenziali in un clima tesissimo e drammatico in Brasile. L’istituto Ipec, il più attendibile al momento, dà l’ex presidente Lula da Silva, fondatore del partito dei Lavoratori e simbolo della sinistra latinoamericana al 48% e il presidente uscente, l’ultra reazionario Jair Bolsonaro, al 31%. Lula sogna di riuscire a superare il 50% e ad evitare così il ballottaggio.
Bolsonaro spera in una rimonta dell’ultimo minuto e punta sulla grande mobilitazione della potentissima rete delle chiese evangeliche (un brasiliano su quattro si professa evangelico) insieme al sostegno dei grandi allevatori, dei latifondisti e a quello della lobby delle armi. Bibbia, vacche e pallottole, il grande partito trasversale della destra brasiliana che in questo momento ha in pugno il Congresso brasiliano. Per raccogliere i voti in uscita di quella parte della destra che detesta Bolsonaro e il suo conservatorismo xenofobo e violento, Lula ha offerto la candidatura come vicepresidente all’ex governatore di San Paolo, il liberale Geraldo Alckmin. Il suo avversario storico, destra moderata, liberale si presenta in ticket con lui. È diventato “il compagno Alckmin”, come Lula lo ha presentato nei comizi. Attraverso Alckmin Lula spera di captare i voti della classe media bianca urbana che nel 2018 si buttò nel baratro di Bolsonaro e ora è disperata per quella scelta.
Lula è certo di aver recuperato ormai il consenso di quella che fu la base sociale del suo partito fino a una decina d’anni fa, quella nuova classe sociale creata dal primo decennio del primo governo di sinistra nella storia del Brasile fatta soprattutto di lavoratori statali massacrati dalla crisi. Gente illusa e poi delusa dal boom economico dei due governi Lula (2003-2010) quando il Brasile era un miracolo di sviluppo lodato in tutto il mondo. Una parte di quelli che si erano illusi d’essere diventati classe media e si son ritrovati dopo qualche anno indebitati fino al collo, si sono rivoltati contro il partito dei Lavoratori perché furiosi. Delusi dal miracolo lulista, non hanno voluto credere che l’epoca delle vacche grasse fosse finita.
Dopo essersi gonfiati di debiti convinti dai micro crediti che il boom fosse eterno, non hanno voluto credere che quel miracolo fosse retto da una incredibile congiuntura fatta di prezzi altissimi nel mercato internazionale dell’agro business combinata a una politica di ridistribuzione che non ha più i soldi per tenersi in piedi, né una leadership politica in grado di procurarseli. Ora, bruciati da quattro anni di governo di estrema destra e da una profonda crisi economica che la pandemia di Covid, negata da Bolsonaro, ha acuito, sarebbero pronti a tornare a votare a sinistra.
Bolsonaro da mesi, da quando ha visto nei sondaggi il suo nome precipitare, dice ai quattro venti di temere brogli. Molti temono che questo suo insistere sulla non attendibilità dei risultati possa essere il preambolo a un colpo di stato. È vero che Bolsonaro conta con l’appoggio di molti generali, ma son quasi tutti generali a riposo e quindi senza truppe. È vero anche che la dittatura militare in Brasile è finita solo nel 1985. Ma quando ci fu il golpe, nel 1964, i militari poterono contare sul silenzioso appoggio della maggior parte degli imprenditori, di buona parte della classe media e soprattutto del Dipartimento di stato americano. Nessuno di questi tre soggetti sarebbe pronto oggi ad appoggiare un colpo di stato in Brasile.
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