Quando si aprono le crisi al buio non è detto che, ad un certo punto, arrivi qualcuno ad accendere la luce. Chi ha messo in movimento la palla di neve – se essa provocherà una valanga – ne risponderà al tribunale della storia, per le conseguenze sciagurate che pioveranno sul Paese. Ciò premesso, credo che la sola possibilità di scongiurare le elezioni anticipate risieda (ma è una soluzione improbabile) in un accordo tra Conte e Renzi che ripristini la maggioranza entrata in crisi. Per nostra fortuna al Quirinale hanno la testa sulle spalle e non daranno mai l’incarico ad un esponente del M5S (il fatto che Renzi faccia trapelare una eventuale ipotesi Di Maio è una prova ulteriore della sua faciloneria).

Ma Conte è diventato l’uomo da bruciare. È facile sparare adesso sulla Croce rossa rinfacciando a Giuseppe Conte di essere emerso dal nulla, di aver condiviso tutti gli atti di un governo scellerato come il primo esecutivo da lui (nominalmente) presieduto. È pur vero che questo avvocato con la pochette, strada facendo, era cresciuto. All’inizio del suo mandato più che un “avvocato del popolo” somigliava al legale privato dei suoi due vice, “messo lì nella vigna a far da palo”, pronto a eseguire i loro ordini, magari accontentandosi di sussurrare qualche consiglio all’orecchio (clamorose furono le sue retromarce su temi delicati dopo le sfuriate di Matteo Salvini e patetiche le sue telefonate da Bruxelles per ottenere il via libera): poi in breve aveva preso sul serio l’incarico che gli era stato affidato “un po’ per celia, un po’ per non morir”.

Era divenuto l’interlocutore dei “burocrati di Bruxelles”. Aveva capito dove si prendono le decisioni vere e si era reso conto che conveniva avere accesso alla “stanza dei bottoni”, sia pure entrando da un ingresso di servizio, chiedendo educatamente il permesso e sedendosi in disparte. Era divenuto poco a poco la “quinta colonna” del Quirinale nell’ambito del governo. Uomo di mediazione tra le opinioni altrui, aveva imparato a fare sintesi mettendoci un po’ del suo. Il suo europeismo non è nato, strumentalmente, insieme al secondo governo. Quando ci fu da negoziare con la Commissione i contenuti della manovra per il 2019, nonostante i clamori volgari provenienti dagli ottimati della maggioranza, con un vero e proprio colpo di teatro, modificò, insieme al ministro Giovanni Tria, l’ordine dei decimali (da 2,4 a 2,04) del deficit, con i conseguenti tagli alla spesa per quota 100 e il reddito di cittadinanza, in barba ai brindisi festosi dei pentastellati.

Qualche mese dopo con l’assestamento di bilancio il premier di nuovo disarmò la procedura di infrazione riducendo al silenzio i suoi due vice (in particolare Capitan Fracassa) e costringendoli a marinare la seduta del Consiglio dei ministri che sottoscrisse l’atto di resa. Poi, Conte ha saputo approfittare del terrore dei pentastellati per un eventuale voto anticipato tanto da convincerli di poter evitare il “salto nel buio”, occupando uno spazio politico all’interno delle istituzioni europee. Il fatto che i pentastellati a Strasburgo siano stati determinanti – dopo averne combinate di tutti i colori – per la elezione di Ursula Von der Leyen ha finito per assumere un significato politico anche in Italia. Probabilmente non ci spiegheremo mai la folgorazione sulla via di Bruxelles dopo che Conte aveva vissuto 15 mesi da pecora, nel gregge salviniano.

Ma in politica contano i fatti. Giuseppi il 20 agosto del 2019 trovò il coraggio di denunciare che l’ex Capitano era non solo un irresponsabile (che si pavoneggiava con una manovra da 50 miliardi), ma un pericolo grave per la democrazia. Nessuno fino a quel momento lo aveva detto con tanta nettezza, da testimone diretto dei fatti; neppure a sinistra, dove erano in tanti a preferire le elezioni anticipate anche a costo di riconsegnare a Salvini ciò che si era giocato con le sue intemperanze. Se siamo onesti dobbiamo riconoscere che, chiamato a presiedere il suo secondo governo, Conte ha mostrato un diverso “quid” (copyright Berlusconi).

Per usare una metafora, alla stregua di quei personaggi di tanti film (che abbiamo visto fin da bambini) nei quali, per i più svariati motivi, a un quidam de populo viene chiesto – per la sua somiglianza – di sostituire un sovrano, un granduca o un presidente della Repubblica. Costui acconsente ed esegue il suo compito meglio del titolare, fino a far innamorare di sé la regina, la granduchessa o la first lady. A me sembra un fatto incontestabile che un avvocato – con buone relazioni professionali, ma sconosciuto al di fuori del suo ambiente, privo di qualunque esperienza politica e imposto al Capo dello Stato dai due boss vincitori delle elezioni – divenuto presidente del Consiglio tra l’ilarità generale, insultato durante una seduta del Parlamento europeo, messo alla berlina da un grande comico come Maurizio Crozza, sia riuscito a collocarsi al centro della scena politica nazionale ed internazionale in un tempo inferiore a quello occorso ad Umberto Bossi per prendere, per corrispondenza, il diploma di Radio Elettra.

Se sono onesti, anche i suoi più acerrimi avversari non possono non riconoscere che Giuseppe Conte – dopo un esordio quasi da passacarte (“posso dirlo?”) – si è comportato, nel ruolo che si è trovato a svolgere (con la stessa casualità di chi vince al totocalcio con una sola schedina), come se non avesse mai fatto altro nella vita. Fino a convincere che lo ”’Stato c’è” gli italiani smarriti, ossessionati da una crisi sconosciuta che metteva a dura prova non solo i loro risparmi e i loro posti di lavoro (come il crack del 2008-2009) ma anche la loro salute e le loro libertà elementari.

Se un giorno dovessimo dare a “Giuseppi” un soprannome, potremmo chiamarlo “iron pochette”. Non è stato trascurabile il suo ruolo nella definizione del Pacchetto Ue (il quadrifoglio: Bei, Sure, Mes, Ngeu). Ma il Conte 2 era nato per altri motivi essenziali: entrare in sintonia con l’Unione, allontanare l’avvento di un governo di destra-destra ed evitare che a eleggere il nuovo inquilino del Quirinale fosse una maggioranza sovranista. Questi obiettivi sono stati salvaguardati. Anzi dobbiamo riconoscere che se il nostro Paese è quello a cui dovrebbe essere assegnata la quota più importante del “tesoretto”, ciò è avvenuto anche per sostenere la prima linea – dislocata nella nostra Penisola – nella guerra contro il sovranpopulismo.

Non è una minaccia ritenere che un cambio di campo dell’Italia porti con sé la rimessa in discussione del Ngeu. Quale è stato – tra i tanti errori – il limite di Giuseppe Conte, quel “tallone di Achille” in cui si è conficcata la freccia di Renzi: il suo governo è rimasto intrappolato nella politica dei “ristori”: un vero e proprio riflesso condizionato dalla gestione della pandemia, dal panico dell’emergenza che ha finito per diventare una strategia, addirittura una linea di politica economica a suon di scostamenti di bilancio e di incremento del debito pubblico.

Conte e Gualtieri non sono riusciti a trovare un equilibrio tra la resilienza, le riforme e la ripresa. Hanno scelto il mantenimento dello status quo ed hanno rischiato di sprecare del tutto le grandi opportunità di questa fase: il Piano Marshall europeo e il ritorno di una Amministrazione, negli Usa, aperta alla globalizzazione e al multilateralismo, amica dell’Europa.