Si può scegliere da quale parte stare quando si conosce qualcosa della parte che si sceglie e della parte che si avversa.
Ebbene, che cosa si sa davvero di Israele? Quale conoscenza effettiva se ne ha presso l’opinione pubblica che pure ne sente parlare ogni giorno, e tanto più da alcuni mesi a questa parte? Non si sa, generalmente, che quel Paese è retto da una democrazia effettiva per quanto sicuramente conflittuale. Non si sa che il tenore dei diritti civili e politici in Israele è altissimo, e che a presidiarlo è un sistema giuridico e di tutele molto avanzato, incomparabilmente più avanzato rispetto a quello che regge società occidentali che si presumono perfettamente salde da quel punto di vista. Non si sa che in Israele la presenza araba è assai cospicua, e non si sa che non occupa i ranghi infimi e segregati della società ma è diffusamente diramata nel lavoro, nella scuola, nel circuito politico, con diritti del tutto equipollenti. Non si sa che è in forza del sistema democratico e giuridico israeliano che possono essere rivendicati i diritti degli arabi che in Israele vivono, lavorano, studiano, insegnano, fanno impresa, fanno politica e manifestano, con moltissimi israeliani, contro il governo che non piace. Non si sa che la possibilità, laggiù, di denunciare la violazione di un diritto di un arabo dipende dalla legge del Paese, Israele, che non fa distinzioni etniche o di altro tipo, non certo da quella che ci sarebbe se fosse impiantato il sistema vigente ovunque attorno a Israele. Non si sa che in Israele ci sono numerosi movimenti e partiti politici fatti da arabi, che votano e decidono con pari poteri, mentre i nemici di Israele farebbero in Israele e nel mondo ciò che hanno fatto dove hanno preso il potere, vale a dire eliminare fisicamente gli avversari. Non si sa che i “diritti” dei palestinesi di cui si vagheggia qui da noi sono protetti dove si crede che siano sacrificati, cioè in Israele, e sono sacrificati proprio dove alcuni follemente immaginano che sarebbero fiorenti se Israele, secondo certe rappresentazioni, non li avesse conculcati. Non si sa che un esplicito atteggiamento antisionista orienta le lezioni di professori arabi che fanno carriera senza problemi nelle università israeliane. Non si sa che essere povero in Israele significa essere magari non ricco, ma certamente non derelitto come l’omologo nei Paesi che attorniano Israele.
Non si sa, o almeno non si considera, che una donna araba può essere a capo di un istituto universitario in Israele e non si sa, o almeno non si considera, quanta gioia dà agli eroi del 7 ottobre la mamma araba adibita a fattrice di martiri.

I problemi della democrazia israeliana

Essendo tutto questo assai poco o per nulla conosciuto, è persino difficile che si comprenda qualcosa delle non poche cose che effettivamente non funzionano nella democrazia israeliana: la quale, molto banalmente, ha problemi come tutte le democrazie hanno problemi. Non si comprende che lì una società fondamentalmente laica, aperta, tollerante, include problematicamente minoranze arretrate e fondamentaliste, le quali tuttavia costituiscono un problema per la stessa maggioranza sociale israeliana che ne contrasta con forza le ambizioni rappresentative e ne denuncia addirittura con rabbia i privilegi parassitari. Non si comprende che contestare la inaccettabile pretesa di residenza biblica su una terra disputata (che non è davvero una pretesa di tutti gli israeliani) si può e si deve, ma un conto è farlo sulla scorta di un’opposizione civile, democratica e politica, che è quella possibile in Israele, finché c’è Israele e proprio perché c’è Israele: un altro conto è farlo opponendo a quella pretesa il progetto – questo sì genocidiario – che non solo cancellerebbe la presenza degli ebrei ma inoltre ridurrebbe quella regione al latifondo di ignominia che impicca l’apostata e decapita l’omosessuale. Non si sa che i coloni aggressivi, e responsabili di comportamenti intollerabili e non raramente criminali ai danni dei palestinesi, costituiscono una minoritaria realtà ripudiata innanzitutto dalla maggioranza della società israeliana. Non si sa che i ragazzi che ballavano in quel festival, fatti a pezzi dai macellai del 7 ottobre, così come i loro genitori, erano ben più rappresentativi dell’essenza israeliana rispetto al colono che rivendica il diritto di estirpare gli ulivi altrui per delega divina. Non si sa che le linee di rifornimento di acqua a Gaza erano posate da operai israeliani che consideravano una missione aiutare quella popolazione bisognosa.

La tragedia un popolo

Una conoscenza appena accennata dell’effettività democratica e civile di Israele potrebbe indurre chi non ne sa nulla, come quei ragazzi che manifestano nelle università, a denunciarne gli emendabili difetti e a criticarne anche fortemente le incompiutezze. Che esistono certamente, ma devono trovare il giusto contrasto con l’appello ai principi di libertà e democratici rispetto ai quali costituiscono un baco, non con l’appello ai proclami dei macellai e dei loro mandanti che vogliono cancellarli. E anche la causa palestinese, per cui fanno le mostre di manifestare in tanti, potrebbe in tal modo contare su simpatie capaci di promettere a quel popolo un futuro di diritti e di libertà anziché il cupo destino di miseria e cinture esplosive preparato da chi usa due milioni di persone come sacchi di sabbia a presidio degli arsenali. Perché neppure questo, in quella impassibile ignoranza, e finché essa impera, può far capolino: la tragedia di quel popolo non sarà risarcita mandando alla sbarra lo Stato “terrorista” le cui bandiere finiscono in rogo nei cortei “per la pace”, ma preparando le condizioni affinché laggiù un’amministrazione diversa assuma, coltivi e diffonda i criteri di convivenza che, per esempio, consentono, qui da noi e in Israele, di manifestare come altrove è vietato se non al prezzo della libertà e della vita.