Sono passati trent’anni da quando la DDR, Repubblica democratica tedesca, è stata cancellata dalle carte geografiche assorbita dalla Germania Federale, di cui ha rappresentato per almeno un decennio il maggior problema sociale e finanziario, quando le fu di fatto imposta la riunificazione secondo le regole di mercato. Se un tempo ti rendevi conto, in aereo, di quando passavi dalla Germania occidentale piena di luci a quella comunista con poche luci giallastre, oggi sappiamo che l’effetto ottico è finito, ma che una parte della vecchia anima e del vecchio malumore ancora esiste. Chi aveva trent’anni allora oggi ha i capelli bianchi ma ricorda talvolta con nostalgia. Nostalgia di che cosa? Probabilmente di una Germania paradossalmente un po’ anarchica e libertaria malgrado il regime di polizia, affamata di libertà ma per nulla convinta di voler far parte del sistema capitalista.

Diciamo che la DDR era l’unico Stato comunista, voluto dall’Unione Sovietica, che abbia avuto successo. Inevitabile la battuta sul fatto che i tedeschi, basta che tu gli dia un ordine e quelli eseguono, ma non è così. La nostra memoria collettiva ha molti buchi e una riguarda la fine della DDR. Che cosa ricordiamo, in fondo? Il Muro, le folle che liberate dalla prigionia sciamano in occidente sulle piccole Trabant come canarini che hanno trovato la gabbia aperta, ricordiamo il cancelliere della Germania occidentale Helmut Khol gigantesco e immobile (“Sembra a un funerale” disse in diretta un cronista della DDR), e poi la riunificazione, la fine di quel piccolo Stato che durò 41 anni, essendo nato formalmente nel 1949 e che aveva celebrato prima della caduta del muro i quarant’anni di esistenza con una gigantesca “Parade” in cui i soldati marciavano al passo dell’oca come ai tempi di Hitler, ma anche come ai tempi dell’imperatore Guglielmo, figlio della regina Vittoria e che si sentiva tanto inglese quanto Hohenzollern.

Trombe e tromboni e colori sgargianti, bambini biondi e generaloni con cappelli troppo alti e soldati dalle uniformi verdi per far dimenticare il grigio-azzurrino del Terzo Reich. Ma – ecco un punto interessante – quando l’Unione Sovietica mise al mondo questa Germania satellite, pari a circa la metà di quella occidentale che riuniva le ex zone d’occupazione americana, inglese e francese, volle che fosse una Germania molto tedesca. Non russificata. La Germania pre-nazista aveva avuto un partito comunista prestigioso come quello di Rosa Luxemburg (uccisa prima che Hitler fosse in campo) e poi un partito comunista che era stato una succursale del Pcus. Fu disegnata così, questa nuova Germania comunista: conservatrice in fatto di tradizione. L’elmetto tradizionale dei soldati fu un po’ allargato, ma la nuova Armee era più imperiale della Bundeswehr tedesco-occidentale. Negli anni Settanta e Ottanta i tedeschi orientali discutevano con gli occidentali sulla purezza della lingua, perché il tedesco si stava culturalmente sdoppiando: quello dell’Est era ossessivamente purista, degno di Kant e di Rilke; e quello occidentale deformato dagli americanismi. Nella RDT i giovani comunisti che frequentavano i bar, i rari ristoranti e gli auditorium erano autentici. Ricordo che per andare la sera al Teatro dell’Opera a Berlino Est gli operai si aggiustavano la tuta con camicia bianca e qualcosa che desse l’idea di un abito da sera.

C’erano sempre molti giovani comunisti, cosa totalmente diversa da quel che accadeva in Cecoslovacchia dove vissi il mese drammatico della caduta del regime: o in Polonia dove i giovani erano sotto una ferrea guida cattolica, a sua volta ferreamente sorvegliata dai servizi segreti.
In un recente documentario una vecchia militante della Raf (organizzazione terroristica della Germania occidentale) passata ad Est diceva: «Era chiaro che quando arrivarono quelli dell’Ovest, l’unico loro scopo era distruggere la nostra DDR. Stavamo benissimo con due soli tipi di yogurt, uno con le fragole e uno senza fragole, e adesso di yogurt ce sono sessanta». E chi è stato l’ultimo rappresentante formale di quel piccolo Stato? Una donna: una certa Angela Dorothea Kasner, una ragazza di Amburgo figlia di un pastore protestante. Diventerà Merkel col matrimonio ma allora era una studentessa di fisica molto brillante iscritta alla gioventù del partito che si chiamava Movimento Giovanile socialista: parla bene, idee chiare e diventa una delle migliori Aghitrop, il perfetto equivalente dell’italiano Agit-Prop (attivista della sezione Agitazione e Propaganda) del vecchio Pci. E diventò la portavoce del governo della RDT. L’ultima.

Quella donna quadrata, testarda, non indifferente alle emozioni ma convinta di quel che pensa, è una laureata in fisica quantistica, che non è roba per tutti. Durante la competizione spaziale negli anni della guerra fredda, girava una vecchia battuta: «I fisici tedeschi dei russi sono migliori dei fisici tedeschi degli americani». Quel fisico tedesco lì, Angela, passò nelle file occidentali della CDU del cancelliere Helmut Kohl che la nominò ministro per le donne. A quel punto era accaduto qualcosa che tendiamo a dimenticare. In Europa non erano molti i fan alla riunificazione tedesca perché avevano tutti paura di una grande Germania unita. Andreotti disse: «Adoro talmente i tedeschi che di Germanie ne vorrei avere sempre almeno due». Fu allora che Kohl andò a Parigi per fare ai francesi e gli altri europei la proposta che non si può rifiutare: se ci autorizzate all’unificazione, noi in cambio daremo all’Europa il nostro Deutsche Mark e lo chiameremo Euro. La fine è nota. La Germania Est formalmente funzionava. Ma secondo quasi tutti gli storici ed economisti aveva i giorni contati. Funzionava socialmente nel senso che tutti avevano una casa, un lavoro, scuola e assistenza medica gratuita. Ma secondo la visione occidentale non funzionava perché non produceva risorse, ma si limitava a consumarle.

Producevano nubi di nero fumo e spargevano gas. Tutto l’Oriente socialista era inquinante cinque o sei volte l’Occidente. Resistenze ai cambiamenti, burocrazia, diffidenza verso il nuovo. Ma nel quadro generale, la DDR era un Paese di sogno rispetto agli altri “buffer States”, Stati cuscinetto con cui la Russia di Stalin aveva deciso di proteggersi da eventuali invasioni, ripetendo lo schema zarista. C’era la Stasi, ma è ridicolo che in Italia e in Europa la Stasi sia diventata popolare soltanto per il film “Le vite degli altri” che rivelava una realtà piatta, normale e comune a tutto l’Est: la Stasi – come il KGB – non era soltanto una polizia segreta ma un’istituzione totalizzante. La Stasi promuoveva carriere e concorsi, ingressi nelle scuole, un nuovo appartamento e per questo, sempre come il KGB, aveva bisogno di sapere sempre tutto su tutti, specialmente ciò che è insignificante. Lo scrittore praghese Ivan Klima, che conobbi nella sua casa che somigliava a una discarica, scrisse un bellissimo e premiato romanzo, “Amore e spazzatura”, ricostruendo dagli scarti nei bidoni la vita erotica di persone depresse in una società che non smaltiva rifiuti. A Berlino o a Lipsia era lo stesso. A Lipsia era la grande sede tedesca del KGB sovietico di cui uno degli ultimi ufficiali è stato il colonnello Vladimir Putin, che infatti parla un decoroso tedesco. Lì, Stasi e KGB fondevano le loro strategie e conoscenze come ho già raccontato a proposito delle imprese della banda di Carlos “lo Sciacallo” che aveva base a Budapest.

Ma la Stasi era una eccellente agenzia di intelligence che reclutava facilmente nella Germania capitalista dove fece il colpo del secolo arruolando il brillantissimo agente Gunter Guillaume che diventò il segretario personale di Willy Brandt, prima sindaco di Berlino Ovest e poi cancelliere della Repubblica federale tedesca. Lo storico russo naturalizzato inglese Boris Volodarsky – ex colonnello del servizio segreto sovietico e oggi accademico occidentale – mi mostrò le foto di sé stesso e dei suoi uomini travestiti da soldati americani su un finto carro armato americano mentre se ne andavano a zonzo nella Germania occidentale sotto la direzione della Stasi, beffando la Nato. Quando arrivarono gli occidentali nella DDR dopo la caduta del muro nel novembre del 1989 i dirigenti di quel Paese ormai orfano tentarono di ottenere una autonomia formale insieme a un grande prestito con cui promettevano in quattro anni di riciclare e rendere competitive tutte le industrie della repubblica socialista per renderle competitive. Ma a Bonn non ne vollero sapere: dovete buttare via tutto, prenderemo noi il controllo – risposero – e non concederemo un solo marco.

Ne seguì una crisi esistenziale catastrofica di cui noi non sappiamo o ricordiamo nulla: manifestazioni di piazza, scontri con la polizia, suicidi, disperazione. Per distruggere le vecchie imprese di Stato fu mandato da Berlino un esperto liquidatore di aziende: un uomo massiccio e benevolo dall’espressione comprensiva e triste di nome Detlev Rohwedder. Era il presidente della Treuhand, società specializzata nello smembrare fabbriche inutili e crearne di nuove. Intanto, tutti – o quasi – licenziati e in cassa integrazione. Un rapporto integrale sullo stato dell’industria diceva che il personale era assenteista e indisciplinato e i prodotti non competitivi con quelli occidentali e senza mercato. Il cancelliere Kohl disse in televisione: «Molti staranno meglio ma nessuno starà peggio». Ma gli uffici di collocamento non smaltivano la lista d’attesa. Le donne furono le prime ad essere sbattute fuori. E fu allora – eravamo nel 1990 – che tornò a farsi sentire la RAF, l’organizzazione terrorista simile alle nostre brigate rosse. E Rohwedder fu assassinato all’imbrunire con una operazione talmente perfetta da essere considerata dagli esperti “di tipo militare”. L’omicidio fu rivendicato dalla RAF che però non esisteva più da anni.

Oggi, a trenta anni di distanza, tutti gli analisti sostengono che l’eliminazione di Rohwedder fu l’ultima operazione della Stasi, formalmente disciolta. Era il 2 aprile 1991 a Düsseldorf quando Detlev Rohwedder in piedi nel suo studio ebbe la schiena spezzata da un colpo di fucile di precisione che attraversò i vetri della finestra. Il liquidatore era stato liquidato dagli ultimi agenti della Stasi. Oggi, a trent’anni di distanza tutti sono d’accordo nel dire che la Germania ha vissuto il periodo di maggior crescita, influenza e potenza commerciale, senza per questo diventare un pericolo per l’Europa e per il mondo. Angela, la piccola giovane comunista diventata cancelliere, su questo argomento è stata e resta perentoria: la sua Germania non intende mai usare le armi, neppure nelle missioni di pace.

Ciò manda in bestia gli americani che la accusano di sbafare la costosa protezione militare americana e di spendere quanto risparmiato con una produzione eccessiva che espelle dal lavoro gli operai americani. Questa è la principale ragione dell’“America First” di Donald Trump che non ama la Merkel e il sentimento è reciproco. Ma ancora oggi la grande Germania unita è sotto il comando di una rodata agit-prop della gioventù comunista della Repubblica democratica tedesca, a tempo perso laureata in fisica quantistica.

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Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.