L'assalto in stile Capitol Hill
Cosa sta succedendo in Brasile, dall’assalto ai palazzi istituzionali alle decisioni della Corte Suprema
“Vogliamo i militari! Mandiamo casa il comunista Lula, via il bandito, viva Bolsonaro!”. Raffiche di selfie immortalano le sprangate sugli specchi modernisti del palazzo della Corte suprema. Abbondano i faccioni sorridenti a tutto schermo anche nel pieno dell’assalto in maglietta verdeoro alla Alvorada, il palazzo della presidenza della repubblica disegnato dalla mano di Oscar Niemeyer. Tutto pubblicato subito su Instagram, insieme alle foto della caipirinha in spiaggia, insieme alla braciola dell’ultimo churrasco a casa della zia. “Siamo patrioti! Vogliamo Bolsonaro!” gridano nei video inviati via Whatsapp (tutti in primo piano, tutti riconoscibilissimi, tutte autodenunce).
L’architettura perfetta di vetro e cemento della Piazza dei tre poteri di Brasilia ha fatto domenica da teatro a una scimmiottatura della rivolta trumpista a Capitol Hill di due anni fa. Senza morti, con gravissimi danni e con la copertura evidente della polizia militare. “La violenta escalation di atti criminali è circostanza che può verificarsi solo con il consenso e anche l’effettiva partecipazione delle autorità cui spetta il controllo della sicurezza pubblica e l’intelligence” ha detto pari pari il capo della Corte suprema, il giudice Moraes, il cui attivismo in difesa delle leggi fondamentali dello Stato durante gli ultimi quattro anni ha trasformato l’alto tribunale e lui stesso nei principali nemici dell’ultradestra. È intervenuta ieri la Corte, con un esplicito avvertimento ai capi delle forze armate e a Bolsonaro che nega d’aver a che fare con l’assalto. “L’esercito deve smantellare entro ventiquattro ore tutti gli accampamenti bolsonaristi. Se non lo farà i responsabili delle forze armate e della polizia saranno incriminati” ha ordinato il Tribunale supremo.
L’ordine pubblico di Brasilia, capitale federale, non dipende dal governo centrale ma dal governatore locale, il bolsonarista Ibaneis Rocha. Il responsabile della sicurezza a Brasilia è Anderson Torres, ex ministro della giustizia del governo uscente. Rocha è stato destituito dalla Corte. Per Anderson Torres è pronto un mandato d’arresto. Lui si era organizzato andando per tempo in Florida, insieme a Bolsonaro, che per non presenziare all’insediamento di Lula alla presidenza il primo gennaio e per non dovergli passare la fascia presidenziale se ne è scappato prima a Miami, poi a Orlando ospite di Donald Trump o comunque così ha fatto fino a ieri credere. E lì al momento resta). La polizia militare domenica ha prima lasciato che cento autobus carichi di bolsonaristi inneggianti al golpe arrivassero a Brasilia da vari presìdi che da due mesi campeggiano davanti alle sedi dell’esercito delle principali città brasiliane invocando l’intervento armato contro l’elezione di Lula alla presidenza della repubblica. Poi (i filmati della tv Globo lo mostrano con chiarezza) li ha scortati dalla sede centrale dell’esercito a 9 km dal centro, fino alla Piazza dei tre poteri. Lì, a guardia del Congresso e della Corte suprema, c’era un pugno di agenti armati di spray urticante. I bolsonaristi, convinti dalla propaganda social d’aver perso elezioni truccate (il presidente uscente ha detto per mesi prima delle elezioni che non avrebbe mai riconosciuto una sua sconfitta), hanno travolto senza difficoltà l’esile barriera e sono entrati nelle sedi del legislativo, della Corte suprema e della presidenza.
Brasilia domenica era vuota. Siamo in piena estate. Lula era a San Paolo. Da lì due ore dopo ha spedito la polizia federale nella capitale. Centinaia di arresti, tutto fatto con i guanti di velluto. Di solito la polizia brasiliana se si muove per riportare l’ordine pubblico all’ingresso di una favela lascia qualche cadavere a terra. “Questi vandali fascisti saranno perseguiti con la forza della legge” ha detto Lula. I governatori alleati di Bolsonaro hanno condannato l’attacco. E il partito Liberale (che di liberale non ha nulla), il partito che ha candidato Bolsonaro, ha tentato di svincolare l’ex presidente dall’assalto. Uno dei dirigenti, Valdemar Costa Neto, ha inondato i social di video in cui dice: “Quanto accaduto a Brasilia è una vergogna per tutti noi, non ci rappresenta e non rappresenta Bolsonaro”. Di poche ore prima è un altro suo post in cui elogia, come ha fatto tutti i giorni dal ballottaggio perso del 30 ottobre ad oggi, i presìdi davanti alle caserme militari che chiedono giorno e notte un intervento per sloggiare Lula dalla presidenza.
Questa è stata la strategia di Bolsonaro finora. Seminare l’idea di una necessaria rivolta per cacciare Lula. Esortare l’aiuto militare e poi – visto che le forze armate gli sono state fedelissime (in cambio di privilegi pensionistici, posti di potere e valanghe di soldi) ma quando ha perso non si son rese disponibili al colpo di mano – lasciare che a invocare il golpe siano migliaia di scalmanati da sostenere o far finta di mollare secondo l’evenienza. Come gestire la questione di ordine pubblico creata dai bolsonaristi è uno dei problemi di Lula. Il suo ministro della giustizia, Flavio Dino, è per l’uso immediato della forza: non si può cercare un golpe quindi chi lo fa va fermato subito, sostiene. Il capo della Difesa, José Mucio, è per evitare ogni possibile confronto di piazza. Lula per ora ha tolto il controllo dell’ordine pubblico nella capitale alla polizia militare e l’ha affidato alla polizia federale che dipende dal governo centrale. Non muoverà un dito rispetto a Bolsonaro. Sa che presto sarà qualche giudice a farlo. Per come da capo del governo ha negato l’esistenza di un’emergenza Covid rifiutandosi fino all’ultimo di adottare strategie pubbliche di contenimento della pandemia, per la misteriosa gestione di vaccini che a un certo punto sono comparsi poi scomparsi, per l’uso sistematico di notizie false, per un patrimonio immobiliare sterminato acquistato in contanti. L’ex presidente non ha più immunità. Ed è per questo che se ne sta in Florida.
Ma il grosso problema di Lula è che a quel Bolsonaro lì, noto ormai a tutti dopo quattro anni di governo per quel che è, gli elettori brasiliani solo due mesi fa hanno dato il 49,1% dei voti al ballottaggio. Quel 49,1% è la prova tragica del fatto che la destra moderata in Brasile non esiste. La destra brasiliana è feroce, razzista e dopo aver portato nel 2018 un ex capitano dell’esercito noto per la frase frase “i negri non vanno bene nemmeno per la riproduzione” alla presidenza di un paese di 200 milioni di persone abitato al 50 per cento da neri (7 per cento) e meticci (43 per cento) più un milione di indigeni, gli ha ridato milioni di voti. Il volgare ex colonnello con giubbottini attillati e sorrisetti da serial poliziesco anni Ottanta è arrivato a un passo dalla riconferma al Planalto grazie anche ai voti di quelli che prima votavano per il centro o per un intellettuale raffinato come l’ex presidente Fernando Henrique Cardoso e adesso non sono affatto infastiditi dall’idea di una svolta autoritaria. Non sono solo gli evangelici analfabeti intossicati dalle fake news a votare Bolsonaro. Sono stati i bianchi brasiliani ricchi che si esprimono mediamente meglio di Bolsonaro e hanno studiato certo più di lui ad aver creato il fenomeno dell’ex militare nazi-pop. Sono loro ad aver spostato il voto conservatore in modo così netto verso l’estremismo.
La destra liberal, che seppur esilissima comunque esiste in Brasile, è stata da qualche anno spazzata via da una diffusa e possente richiesta di ordine. Non di legge, né di progresso. Di ordine.
Non è soltanto il risultato dell’esplosione dei vecchi partiti dopo le inchieste a tappeto sul finanziamento alla politica e la corruzione, non è soltanto la conseguenza del terremoto della classe dirigente per via giudiziaria. È anche l’inconfessabile voglia di autoritarismo che serpeggia nei tanti, seppur silenti, a cui non è mai andata giù del tutto quella legge per le quote riservate ai neri nelle università voluta dalla sinistra al governo, o quel 20 per cento dei futuri posti nei concorsi pubblici da riservare a neri, o i diritti dei camerieri a domicilio previsti dalla civilissima quanto detestata legge per regolamentare il lavoro domestico (diritto a una giornata di lavoro non più lunga di otto ore, diritto alla retribuzione dello straordinario: norme rivoluzionarie nel Brasile dell’apartheid di fatto delle cameriere). Tutte leggi fatte dai governi del partito dei lavoratori di Lula dal 2003 al 2010 che ora è di nuovo al Planalto, sì, ma con un’opposizione in mano a quelli che gridano: “l’unico bandito buono è il bandito morto”.
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