Se c’è uno che è sempre stato capace di farsi uno e trino, e poi anche concavo e convesso, non secondo gli insegnamenti di Silvio Berlusconi, ma quelli del suo maestro Pinuccio Tatarella, “ministro dell’armonia” ma anche un vero doroteo secondo alcuni, questo è Ignazio La Russa, da due giorni Presidente del Senato. Un fascistone è dunque diventato il numero due dello Stato, quello che dovrebbe assumere le vesti del Presidente della repubblica, in caso di impedimento di quest’ultimo? Uno che non solo non è di sinistra, e questo pare già grave per chi deve rivestire quel ruolo, ma che addirittura vanta quella fiamma che gli arde nei sentimenti, oltre che nel simbolo dei suoi vari partiti, dal Movimento sociale, passando per Alleanza Nazionale e infine Fratelli d’Italia.

Negli anni Settanta, ricchi di ideali e di tragedie, a Milano, nel mondo della sinistra, soprattutto quella cosiddetta “extraparlamentare”, quando sentivi parlare dei “fratelli La Russa”, la mente ti correva subito a violenza e pestaggi dei fascisti. Un po’ il contraltare dei “fratelli Bellini” del quartiere Casoretto, frange estreme di Lotta Continua, che evocavano non certo momenti di pace sociale. Un po’ erano esagerazioni, ma anche un po’ no. Poi in realtà i fratelli La Russa erano tre e uno di loro, Vincenzo, era un democristiano placido, cui di recente una commissione conciliare milanese di sprovveduti ha negato la sepoltura al Famedio, il luogo in cui si rende onore a chi ha contribuito a far grande Milano, con l’argomento idiota del momento politico particolare. Cioè quello in cui un fratello del defunto stava per diventare Presidente del Senato. Ma gli altri due fratelli La Russa, Ignazio (e chi se ne frega del suo secondo nome) e Romano erano decisamente ragazzi di piazza. Ma anche, come si direbbe a sinistra, “di lotta di governo”. Dentro e fuori le istituzioni.

A Milano la figura di Ignazio La Russa è legata soprattutto alla storia di Sergio Ramelli, della sua morte tragica, del processo che ne è seguito, delle lacerazioni che quegli eventi hanno portato nella sinistra molto più che nella destra. Le due parti contrapposte per lunghi decenni, e in parte ancora, sono rimaste ibernate nei propri giacigli, le une vincolate dalla coazione a ripetere, a ogni anniversario, quel “presente” con o senza braccio alzato, gli altri a leccarsi le ferite per una presunta ingiustizia subita per quella morte non voluta nelle intenzioni. Anche se, pure il più scapestrato superficiale dovrebbe essere in grado di sospettare che una chiave inglese di 36 centimetri scagliata ripetutamente sul cranio di un essere umano può portare alla tragedia.

Ignazio La Russa a Milano è la vicenda Ramelli. Non solo perché ogni anno onora l’anniversario, ormai anche con il sindaco e le istituzioni. Ma perché è cresciuto “con” e “in” quel processo. Lì c’è anche un pezzo di mia storia, di cronista giudiziaria del manifesto, che si ritrovava a scrivere, giorno dopo giorno, udienza dopo udienza, di ragazzi della sua età, di un gruppo politico contiguo, Avanguardia Operaia, che avevano compiuto il gesto più spregevole. Non l’uso delle armi, come sarà successivamente con il terrorismo, ma il corpo a corpo in condizione dispari. Uno, l’aggredito, da solo e a mani nude, gli altri vigliaccamente in gruppo, forniti di spranga. Nella nostra mentalità di allora, di militanti di sinistra, questi erano gesti da fascisti, non da compagni. Pure purtroppo capitava anche quello, soprattutto negli ambienti dell’Università Statale di Milano, dove imperava il Movimento studentesco di Capanna e Cafiero. Ho assistito una volta al dopo-massacro, che aveva lasciato sul pavimento di una toilette una profonda scia di sangue, di un tizio perché “entrava mentre gli altri uscivano”. Sicuramente una spia. Quelli come me, estranei a quei comportamenti, tacevano ammutoliti. Incapaci di altro.

Il processo Ramelli ci ha fatti crescere. Intanto perché i responsabili dell’aggressione erano stati arrestati dieci anni dopo i fatti, quando ormai il servizio d’ordine della facoltà di medicina non esisteva più e neanche la stessa Avanguardia Operaia. Gli arrestati erano ormai diventati medici, avevano messo su famiglia, molti erano lontani dalla politica. Il processo pareva ormai un assurdo, tanti anni dopo. L’avvocato La Russa fu fondamentale. Se qualcuno pensa oggi che le parole di conciliazione da lui dette due giorni fa in Senato, quando ha ricordato gli anni settanta a Milano, sintetizzandoli nel delitto Calabresi, oltre alla tragedia del diciottenne Ramelli e alla scomparsa di due simboli della sinistra, Fausto e Iaio (forse vittime di spacciatori più che di fascisti) siano state di comodo, non conosce la persona.

Al processo Ramelli l’avvocato La Russa, legale di parte civile della famiglia offesa, non ha mai chiesto vendetta, non ha rivendicato ergastoli né punizioni esemplari. Era sempre al fianco della signora cui avevano strappato un figlio che ancora andava a scuola, e non fu soddisfatto della prima sentenza che aveva qualificato il delitto (come forse era giusto) come omicidio preterintenzionale. Quando poi però l’appello, cui erano ricorsi tutti, accusa e difese, riportò la vicenda nel canale della premeditazione ma riducendo drasticamente le pene, il legale di parte civile non cercò il terzo grado di giudizio per avere più carcere. Quegli ex ragazzi ancora alla sbarra dopo tanti anni erano stati suoi avversari politici e avevano ammazzato in modo brutale un suo giovane camerata.

Ma lui disse: “Non ricorreremo in Cassazione, siamo soddisfatti perché abbiamo avuto giustizia. Proprio partendo da questa sentenza si potrà avviare una definitiva pacificazione degli animi, ripensando criticamente le violenze che hanno avvelenato il passato. Non era solo l’omicidio di Ramelli a essere giudicato ieri”. Era il 2 marzo 1989. Sette anni prima di un analogo evento da lui citato in Senato, quello del 10 maggio 1996, quando Luciano Violante fu eletto presidente della Camera. Il caso ha voluto che anche quel giorno io fossi presente, e ho applaudito convinta il discorso di un esponente di una maggioranza cui il mio partito, Forza Italia, si opponeva. L’ho applaudito proprio per quel discorso sui “vinti”, che mi era parso da subito non strumentale, come del resto la storia successiva dell’ex magistrato piemontese dimostrerà.

Violante non era stato un giovane “di piazza” come La Russa, ma aveva avuto un percorso di pubblico ministero “di lotta” da farsi perdonare, per lo meno agli occhi di noi garantisti. Nel mio passato, e in quello della mia famiglia (padre liberale, nonno socialista) non c’è traccia di appartenenza alla destra. Ma mi sono commossa quel giorno nel ricordo di quelle “migliaia di ragazzi e soprattutto di ragazze che, quando tutto era perduto, si schierarono dalla parte di Salò e non dalla parte dei diritti e delle libertà”. Sono quelli i momenti in cui riesci a sentirti vicini, proprio come due giorni fa al Senato, anche il “comunista” Violante e il “fascista” La Russa. Concavi e convessi, ma positivi.

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.