«Risulta eletto il senatore La Russa», formula più laconica e fredda la senatrice a vita Liliana Segre non avrebbe potuto adoperarla. Già nel suo discorso iniziale, il più sostanzialmente antifascista pronunciato nell’aula di palazzo Madama da tempo immemorabile, aveva fatto capire che peso fosse il fatto che “toccasse” proprio a lei l’ingrato compito. Quello di nominare secondo cittadino un postfascista convinto e non pentito, erede orgoglioso del solo partito della prima Repubblica escluso dall’arco costituzionale e bisogna essere molto miopi per non capire il portato simbolico della sterzata storica.

Ma Ignazio Benito La Russa è uomo di mondo: non solo regala alla senatrice a vita un mazzo di rose corredato da parole ancor più fiorite. Assicura anche che non c’era una sola parola nel suo discorso che non meritasse applausi. Poi esalta Giorgio Napolitano e Sandro Pertini. Equanime ricorda Sergio Ramelli, ucciso a mazzate dal servizio d’ordine di Avanguardia operaia nella Milano di piombo dei 70, ma anche Fausto e Iaio, abbattuti a colpi di pistola da killer presumibilmente fascisti nella stessa Milano. Della famiglia Ramelli era stato avvocato di parte civile nel processo contro gli assassini. Ma gli è capitato anche, prima di abbandonare definitivamente l’avvocatura, di difendere Mario Moretti, il capo delle Br ai tempi del sequestro Moro. Il neofascista degli anni 70 esalta anche lui il 25 aprile, però chiede che sia celebrata allo stesso modo anche la nascita del Regno d’Italia.

La Russa promette di non essere fazioso e forse davvero non lo sarà. Ma uomo di parte e anzi di partito confessa nel suo discorso inaugurale di esserlo sempre stato. Se esistesse un’aristocrazia missina il nuovo presidente del Senato ne farebbe parte a pienissimo titolo. Il padre, Antonino, era stato segretario del Pnf a Paternò, città natale anche di Ignazio Benito oltre che dei due fratelli e della sorella. Volontario, fatto prigioniero a El Alamein rientra in Italia in tempo per essere tra i primissimi ad aderire al neonato partito della Fiamma, che lo porterà in Parlamento per cinque volte. Nel Msi di Milano, dove si trasferisce alla fine degli anni 50, La Russa, intimo e in affari col paesano Salvatore Ligresti, è una potenza. I conti del partito gli devono parecchio, pesa più di chiunque altro.

Il figlio maggiore Vincenzo non ne segue le orme: diventa democristiano. Il secondo, Ignazio, invece sì e da subito: s’improvvisa comiziante già a 10 anni, milita sin da giovanissimo nel Msi, quando Almirante riorganizza i giovani militanti nel Fronte della Gioventù, all’inizio dei 70, diventa segretario nella piazza centralissima. Astro nascente del neofascismo missino ma anche, giocoforza, ufficiale di collegamento con i duri di San Babila, qualcuno nazista, qualcuno anarchico di destra, comunque ingovernabili. La sede del Fronte è a due passi dalla piazza nera e tocca a Ignazio mantenere i contatti e gestire la manifestazione “contro la violenza rossa” del 12 aprile 1973, vietata all’ultimo momento dalle autorità. Il “giovedì nero” porta alla morte di un poliziotto, Antonio Marino, ucciso da una bomba Srcm da esercitazione.

Per il Msi è un disastro. Almirante denuncia di persona i responsabili ma il partito rischia la messa fuori legge, l’immagine di forza d’ordine che aveva fruttato la vittoria elettorale del 1972 è deturpata per sempre. Il fratello minore di La Russa, Romano, è tra quelli che si scagliano contro i dirigenti del Msi. Lo stesso Ignazio rischia guai grossi sia con la magistratura che all’interno del partito, respinto di nuovo ai margini del quadro politico nel giro di un solo tremendo pomeriggio. Quel La Russa immortalato da Marco Bellocchio nella prima scena di Sbatti il mostro in prima pagina mentre dal palco esorta ad unirsi “gli italiani che non hanno rinunciato a chiamarsi uomini”, capelli lunghi, la stessa barba che sfoggia oggi solo più folta e nera, sguardo spiritato, non è mai uscito di scena, non è mai stato rinnegato.

La Russa rivendica la nostalgia, non nasconde la raccolta di cimeli del ventennio che ha collezionato in casa, con tanto di busti della buonanima. Al contrario ci ha ironizzato a volontà, come quando, dopo il consiglio di evitare strette di mano nell’era Covid, se ne uscì con quel vocione rauco in un provocatorio ma in qualche modo inoffensivo: “Così ci si saluterà, col braccio destro teso!”. Lo stesso braccio che, durante il dibattito sulla legge Fiano contro l’apologia di fascismo nel 2017, levò in un esplicito saluto romano. Poche settimane fa, in piena campagna elettorale, è sbottato in un franco ed esplicito «Siamo tutti eredi del duce perché siamo eredi dei nostri padri e dei nostri nonni».

Tra i colonnelli del Msi La Russa è stato quasi sempre finiano, anche nello scontro congressuale che nel 1990 vide il falco Rauti, appoggiato da molti dei futuri alti ufficiali di An, prevalere sul moderato allora delfino di Giorgio Almirante. Tra le rissose correnti di An non si è mai schierato con i radicali della destra sociale, come Alemanno e Storace: è stato, con Maurizio Gasparri, governista, uomo d’ordine, finiano fino alla rottura col capo del 2011, quando gli rivolse un sonoro “Vaffa”, dopo i rimproveri dell’allora presidente della Camera per aver ironicamente applaudito, lui ministro della Difesa, il capogruppo Pd Franceschini. Poi si scusò ma le scuse non furono accettate: “Non ha offeso me. Ha offeso l’istituzione”.

Ora che l’ “istituzione” è lui si può scommettere che il rispetto sarà garantito. Ma si può essere anche certi che qualche gaffe gli scapperà, perché l’uomo è fatto così, spesso simpatico, questo non lo nega nessuno, a volte imbarazzante. La Russa è figlio di un tempo e di una cultura precisi, chiedergli di rispettare la “correttezza politica” significherebbe chiedergli l’impossibile. Gran seduttore con un debole, ricambiato, per le signore se ne esce spesso con battute consapevolmente grevi: «Non è vero che Berlusconi fa eleggere solo donne belle. Ce ne sono di non belle anche da noi. Ma senza raggiugere l’apice della sinistra». E per spiegare il no alle adozioni per le coppie gay: «Sarebbe un’ingiunzione ingiustificata a diventare gay».

Qualche volta La Russa è andato oltre, la militanza cominciata negli scontri di strada non si dimentica facilmente e comunque nei congressi del Msi darsele di santa ragione era frequente. Una volta gli è scappato un sonoro “Culattone”, poi prudentemente negato. Di fronte a un disturbatore di professione che insisteva nell’interrompere la conferenza stampa dell’allora premier Berlusconi non esitò, dopo un primo richiamo gentile, a adoperare le maniere forti per accompagnare con le cattive il contestatore alla porta. Con il giornalista Corrado Formigli le cose furono più ruvide, un parapiglia verbale finì a calci ma il futuro presidente del Senato accusò il giornalista di aver alzato il piede per primo.

Gran tifoso dell’Inter, al punto da farsi indagare per l’utilizzo indebito dei voli di Stato per seguire la squadra nella partita del 2011 contro lo Schalke, tanto appassionato alla causa e la cultura dei nativi americani da affibbiare ai tre figli come secondo nome rispettivamente “Cochise”, “Geronimo” e “Apache”, La Russa è troppo spiritoso, intelligente ed esperto, con trent’anni di Parlamento consecutivi sulle spalle, per non evitare ogni passo falso che esponga lui e il partito di cui è stato fondatore con Giorgia Meloni e Guido Crosetto ad accuse di fascismo o, come seconda carica istituzionale della Repubblica, di mancanza di imparzialità. Ma la cesura segnata ieri va al di là dei comportamenti di La Russa. La presidenza del Senato non è una carica ministeriale: è il cuore delle istituzioni, l’anima della Repubblica. Che a ricoprirla sia arrivato un uomo che, al di là di meriti e demeriti, incarna nella sua stessa biografia la continuità con un partito estraneo alla Costituzione, nato nostalgico anche se cresciuto perdendo per strada la fissazione con il passato, è un po’ un sipario che cala. Forse più che solo un po’.