La storia con la quale inizia questo libro, dice Susanna Schimperna, è in realtà la venticinquesima. Ovvero l’ultima in ordine di tempo. Si sarebbe potuta fermare prima, dopo tutto aveva raccolto già ventiquattro storie di scrittori morti suicidi e, del resto, non aveva mai sentito parlare di questo Eros Alesi. Ragazzo romano, che ha vissuto i suoi vent’anni nel pieno della contestazione degli anni 60 e 70, come uno dei protagonisti del movimento beat italiano mentre scriveva versi. Dopo la militanza, gli scontri e gli arresti, partì per un viaggio lunghissimo alla fine del quale si toglierà la vita.

«Dice che gli atomi sono forze tramutabili, non distruttibili». Alesi scriveva queste parole per il padre, chiedendo alla morte di eliminare l’ineluttabilità che la caratterizza, accorciando la distanza che un figlio sentiva verso suo padre. Il lavoro di Schimperna L’ultima pagina (Iacobelli editore, 2020) raccoglie, in qualche modo, l’invito di Alesi. Trasforma qualcosa che per definizione è distruzione, in materia sensibile, ruvida al tatto, sicuramente inesausta. Perché se la morte in sé provoca dolore, il suicidio è, socialmente parlando, dolore allo stato puro. E quando qualcuno osa pronunciare quel termine tende a farlo all’interno di una cornice definita, quella della pietà, o – sottolinea Schimperna – quella della depressione che sfocia in follia. Ma «se l’elemento comune è senza dubbio una insopportabile sofferenza, è bizzarro pensare che questa sia stata per tutti uguale e frutto di depressione».

Ogni scrittore narrato all’interno di questo libro, da Sylvia Plath a Vladimir Majakovskij, da Yukio Mishima a Guido Morselli, da Emilio Salgari a Virginia Woolf, offre una risposta diversa al proprio dolore, risposta che il più delle volte risiede, prima ancora che nel gesto finale, nel movimento della sua penna. Il tratto di Hemingway era irruento e spesso, e a fatica si trovavano tentennamenti. L’idea di ciò che fossero il bene e il male, sembrava per lui scolpita nella pietra. Le sue battaglie, come quelle dei suoi protagonisti, erano sempre contro qualcosa di concreto, visibile, chiaramente additabile come nemico. Poi, quell’apparente chiarezza iniziò a vacillare. Gli elettroshock durante i ricoveri, le polmoniti, l’alcool e la paranoia d’esser spiato (rivelatasi non infondata), lo lasciarono con il pensiero che qualcuno gli avesse strappato via per sempre “la parte migliore di sé”.

Nel libro si fa riferimento al concetto di “assassino interiore” di James Hillmann (1964), dove per la prima volta si afferma che in ognuno di noi risiede una sorta di assassino, appunto, che tende a eliminare le parti considerate inutili o addirittura dannose per la nostra esistenza. «Agisce in direzione della vita ma alle volte va oltre, perché ritiene che noi stessi siamo gli artefici della nostra sofferenza». Quello che fa Hillmann, nel suo “Il suicidio e l’anima” non è tanto spiegare l’atto di togliersi la vita, quanto provare a comprenderlo. Il sentimento che si fa strada, leggendo le vicende di questi autori, nasce da un tentativo simile. Una sorta di comprensione intima, quasi timida e molto spesso taciuta, di come esista una sofferenza primigenia alla quale tutti, come possono, cercano di reagire.

Nella sua autobiografia dedicata a Majakovskij, Esenin e Cvetaeva, Boris Pasternak afferma che «ci si uccide non per tener fede alla decisione presa, ma perché è insopportabile questa angoscia che non si sa a chi appartenga, questa sofferenza che non ha chi la soffra, questa attesa vuota, non riempita dalla vita che continua». Proprio in merito a Marina Ivanova Cvetaeva, Schimperna scrive una delle pagine più delicate e insieme irruenti dell’intero volume. «Quanto può sopportare un poeta?» – si chiede l’autrice – pensando alla vita di questa donna. È possibile «riconoscere negli avvenimenti più tristi la condizione di eccezionalità che gli è propria?».

Quello che racconta Schimperna è che donne come Marina Cvetaeva hanno non solo sopportato la miseria, la guerra e l’ingiuria, ma hanno saputo «rifiutare di spegnere la luce che brillava dentro di loro». Sylvia Plath, Pamela Moore e Sara Kane hanno vissuto combattendo contro l’ipocrisia di una società che le aveva etichettate troppo prematuramente come scarti dai quali non poter ricavare nulla. Hillmann definirà la morte come svuotamento, che inizia quando si smette di chiedere qualcosa a sé stessi. A un certo punto queste scrittrici, sembra dire Hillmann, hanno smesso di chiedere. Egli però si opporrà all’analogia fra suicidio e atto di pura rinuncia e anticipa quello che, in modo più esplicito, dirà in un’intervista Roberto Bolaño: «Ogni suicida lascia uno o due misteri dietro la sua morte, ma è anche certo che lascia, inevitabilmente, quattro o cinque risposte, e ciò che di solito temiamo dai suicidi non è il mistero, ovvero le domande che queste morti pongono, ma le risposte che queste morti mettono davanti a noi e di fronte alle quali, automaticamente, chiudiamo gli occhi».

Tra quelle risposte ce n’è una che Schimperna definisce un “ridicolo tarlo”: ossia quel “sogno infantile di onnipotenza” che fa pensare che quel suicidio poteva essere evitato. Schimperna interpreta questo “tarlo” come un sentimento personale, che appartiene all’individuo che cerca dentro di sé il male e la possibile cura. La depressione, diceva ancora Hillmann, nasce quando si diventa consci della propria impotenza, ossia «dell’incapacità di attualizzare un possibile che è iscritto nel nostro essere sociale». Nella sua lettera conclusiva Alesi diceva: «Ho visto che tu hai visto l’inizio di un drammatico sfacelo […] ». Mark Fisher, prima di togliersi la vita nel 2017, ha scritto che «le ferite che ci fanno soffrire sono ferite di classe», intendendo che ciò che sembra profondamente personale, è in realtà profondamente sociale. Trovare quelle ferite e poi raccontarle, come ha fatto Schimperna, significa anche rifiutare l’idea che le ragioni della depressione e del suicidio siano tasti dolenti che non appartengono alla società ma all’individuo preso nella sua singolarità. Riconoscere quelle ferite significa, infine, non distogliere lo sguardo davanti a quel “drammatico sfacelo” che ci appartiene.