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Diritto vaticano e Diritto canonico: due edifici distinti, ma comunicanti. Lì si nasconde il giusto processo

In pressoché ogni ambito delle scienze giuridiche vi sono temi capaci di esercitare un’attrattiva invincibile non solo sugli “addetti ai lavori”, ma anche sul grande pubblico. Per il diritto ecclesiastico, l’esempio principe è quello dello Stato della Città del Vaticano: difficile peraltro non comprenderne le ragioni, avendo ancora negli occhi l’immagine della folla radunatasi in piazza San Pietro per accogliere il nuovo romano Pontefice. Insieme alla curiosità di molti, però, il piccolissimo “Stato del Papa” è non di rado oggetto di poderosi fraintendimenti. Uno dei più comuni si sostanzia nella convinzione secondo cui, essendo il suo sovrano titolare della pienezza della potestà di governo, comprendente il potere legislativo, esecutivo e giudiziario, esso sarebbe per sua natura radicalmente incompatibile con le garanzie assicurate oggi dallo Stato di diritto.
Eppure, uno sguardo più attento rivela come tale preconcetto non solo sia errato, ma debba cedere il passo alla consapevolezza che gli stessi capisaldi giocano un ruolo ancora più centrale per la Civitas racchiusa tra le mura leonine. Difatti occorre rammentare sempre che diritto vaticano e diritto canonico – per chiarire un ulteriore punto spesso equivocato – non coincidono, ma neppure reciprocamente si ignorano, rappresentando l’ordinamento canonico la prima fonte normativa e il primo criterio di riferimento interpretativo di quello vaticano. In questo rapporto, d’altronde, si riflette l’essenza stessa dello Stato d’Oltretevere: il quale è sì una realtà statuale, ma che ha per unico scopo quello di assicurare l’indipendenza della Santa Sede. I due ordinamenti menzionati rappresentano perciò due edifici distinti, ma comunicanti, essendo il diritto canonico, per la precisione, a fornire gli assi portanti su cui anche quello vaticano deve necessariamente poggiare. Questi assi, in particolare, corrispondono alla componente divina di tale diritto, rispetto ai limiti derivanti dalla quale neppure il Sommo Pontefice può considerarsi un sovrano legibus solutus.
In relazione all’ordinamento vaticano, anzi, allontanarsi da tale paradigma significherebbe non solo rinunciare alle garanzie proprie dello Stato di diritto, ma piegare l’esercizio della sovranità sulla Città vaticana a una funzione estranea e deviata, finendo irreparabilmente per compromettere la ragione della sua stessa esistenza. Si badi bene: si tratta di ragionamenti non astratti o impalpabili, ma dotati di un’incidenza più che concreta anche in ambiti tipici di ogni realtà statuale.
Così, ad esempio, nel nucleo del diritto divino naturale – cioè quello che, posto direttamente da Dio, è impresso nella coscienza dell’uomo e ha valore universale – si rinvengono i lineamenti essenziali del giusto processo, comprensivi dei suoi elementi integranti. Ciò ne richiede un’attenta traduzione nello Stato vaticano, che arriva fino a toccare i postulati riferibili alla persona del giudice, di cui è imperativo assicurare l’imparzialità e la terzietà. In questo senso, se i membri della magistratura operano ovviamente in nome del Santo Padre, non lo fanno in quanto suoi meri “delegati personali”, bensì in virtù di un ufficio autonomo e con proprie attribuzioni stabilite dal diritto. Ancora: espressamente la vigente normativa prevede che i medesimi magistrati siano soggetti soltanto alla legge, senza che in detta disciplina compaia più alcun riferimento della dipendenza gerarchica degli stessi dal Pontefice. D’altro canto, però, non per questo l’atipica architettura in parola è sottratta a rischi di cedimenti. I magistrati vaticani – per restare nel solco tracciato – non costituiscono d’altronde un ordine a sé stante, venendo nominati dallo stesso Pontefice: il quale è quindi chiamato ad autolimitarsi e a confermare le numerose tutele poste a presidio della loro posizione, a partire dalla stabilità dell’incarico, guardandosi poi dal vulnerarne la libertà di giudicare tramite interventi che possano condizionarli.
Negli ultimi anni, purtroppo, non sono mancate riforme discutibili che hanno pregiudicato la “tenuta” della magistratura vaticana. Si pensi alla figura del promotore di giustizia, cui è affidata la funzione di pubblico ministero: se fino al 2021 vi era un promotore di giustizia autonomo per ogni grado di giudizio, a partire da tale data il relativo ufficio esercita le proprie funzioni nei tre gradi, con il rischio che l’intero impianto accusatorio si appiattisca sulla tesi sostenuta in prima istanza. O, in modo ancora più evidente, si considerino gli ingiustificati cambiamenti apportati nel 2023 all’assetto della Corte di Cassazione, le modifiche alla cui composizione sono state altresì accompagnate dalla previsione della decadenza dei componenti designati secondo le disposizioni previgenti, impattando sui procedimenti in corso, con buona pace del principio di precostituzione del giudice.
Un esempio palmare, stavolta non “strutturale” ma tanto macroscopico nella lesione del principio di legalità da non poter essere ignorato, lo abbiamo avuto poi con quei rescritti che, nel biennio 2019-2020, sono stati concessi in via riservata al suddetto promotore di giustizia, attribuendogli poteri fino ad allora sconosciuti nell’ambito della vicenda più famigerata che abbia interessato la giustizia vaticana, di cui ci siamo occupati diffusamente nel volume Il «processo Becciu». Un’analisi critica, recentemente edito da Marietti1820. In definitiva, dunque, se qualsiasi accusa di intrinseca inconciliabilità tra i fondamenti dello Stato della Città del Vaticano e la tutela dei princìpi del giusto processo appare, se aprioristica, pretestuosa, è altrettanto vero che spetta al sovrano cui è affidata la pienezza della potestà di governo farsi solertemente carico della responsabilità che nessuna ombra possa essere gettata sull’operato della giustizia vaticana. È, anche questa, una sfida importante con cui il “nuovo corso” appena inaugurato da Papa Leone XIV non potrà fare a meno di confrontarsi.
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