Oggi, dopo quasi due anni dall’inizio della pandemia, la Corte costituzionale è chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale del sistema dei famosi Dpcm per fronteggiare l’emergenza. Il primo dato, allarmante e rassicurante a un tempo, è che finalmente si potrà pronunciare l’organo cui la nostra Costituzione ha affidato il compito di assicurare, al più alto livello, il proprio rispetto. Il fatto che ciò accada dopo così tanto tempo dovrebbe far riflettere. Quando, per così tanto tempo sono messi in gioco diritti fondamentali delle persone, senza che sia data la possibilità di pronunziarsi all’organo che dovrebbe massimamente tutelarli (e non certo per sua responsabilità) vuol dire che qualcosa non ha funzionato.

Ciò detto, adesso avremo almeno qualche certezza. Ma attenzione, malgrado il ritardo, la decisione della Corte avrà una portata storica. Non inganni il fatto che essa riguarderà il passato (il governo Draghi, com’è noto, ha abbandonato rapidamente quella prassi). Le implicazioni si proiettano infatti nel futuro. Le questioni sono della massima complessità tecnica, com’è dimostrato dalle divisioni della dottrina giuridica e dei commentatori. Ma tutti percepiamo che in gioco c’è qualcosa di importante. Si tratta di un banco di prova: è possibile, e in che modo, la tenuta del modello costituzionale liberal-democratico in situazioni di estrema emergenza? Al di là di come la Corte deciderà in concreto, la questione è essenzialmente questa.

Chi scrive non ha mai fatto mistero di nutrire dei dubbi sulla legittimità dell’impianto fondato sui Dpcm, non solo per ragioni tecniche, ma anche perché la motivazione della soluzione prescelta non mi ha mai convinto: era l’idea cioè che l’urgenza fosse tale che nemmeno il decreto-legge, la fonte prevista dalla Costituzione, sarebbe stato abbastanza “urgente”. Una motivazione risibile perché, anche con gli strumenti telematici oggi a disposizione, soprattutto in caso di emergenza, nulla avrebbe impedito al governo di riunirsi di giorno o di notte per assumere le misure necessarie. La motivazione è poi contraddittoria e infondata, perché non c’è nessuna maggiore speditezza nell’adottare i Dpcm, i quali, secondo la disciplina che li ha previsti, sono l’atto finale di una complicatissima procedura di pareri, consensi, intese, e chi più ne ha più ne metta. Il fatto è che, legittimi o illegittimi che siano, sul piano politico-istituzionale, i Dpcm sono stati atti per consentire al governo pro tempore di avere “mani libere”, di sottrarsi al controllo determinante del Parlamento, a quello del Presidente della Repubblica, della Corte costituzionale e del corpo elettorale mediante referendum. Il tutto a Costituzione invariata.

È il Presidente del Consiglio che ha scelto, pescando dal bouquet predisposto dal Decreto-legge che lo abilitava in tal senso, quali misure adottare, quali leggi sospendere, quali diritti limitare. Ripeto, forse la Corte ci dirà che era legittimo che lo facesse, ma una cosa è certa, perché questo la Corte lo ha già chiarito (sent. 37/2021): la soluzione prescelta non era una soluzione obbligata. L’alternativa c’era ed era più nettamente nel solco del modello costituzionale vigente (sulle riforme possibili si può e si deve parlare). Un modello che, radicato nel costituzionalismo, sostanzialmente dice: le scelte fondamentali per la comunità debbono essere significativamente controllabili da parte dell’organo della rappresentanza popolare: il Parlamento. Allo schema può derogare il Governo (attraverso il decreto-legge), ma con la garanzia che il Parlamento comunque interverrà. Non è questa la strada che si è scelta.

Da qui nasce la preoccupazione per il futuro. Per quella nostra tendenza di rendere il provvisorio permanente. Le eccezioni, da noi, diventano facilmente la regola. E ci si abitua dimenticando persino le ragioni eccezionali che l’hanno originata. Così è successo per i decreti-legge o per le ordinanze di protezione civile, utilizzate, a un certo punto persino per grandi eventi del tutto estranei alle calamità naturali (Coppa Louis Vuitton, mondiali di nuoto di Roma 2009, ecc.). La verità è che da noi l’emergenza non è una condizione oggettiva, ma il più delle volte è l’effetto dell’immobilismo politico-amministrativo che rende improcrastinabili (e dunque necessarie e urgenti) decisioni che si potevano prendere per tempo. Un’emergenza indotta, a causa di una normalità che non funziona. Un’emergenza che giustifica tutto. La posta in gioco allora non riguarda il passato, ma il futuro.

Un esempio. Nel decreto legge semplificazioni, che disciplina l’intera governance del Pnrr, c’è una disposizione simbolica e preoccupante a un tempo. L’art. 12 prevede la possibilità che alcuni organi si sostituiscano a quelli che risultino inadempienti agli obblighi previsti. Nulla di scandaloso. Si chiama potere sostitutivo ed è anche previsto dalla Costituzione (art. 120). Quello che preoccupa non è la straordinarietà della sostituzione, ma gli strumenti straordinari che possono essere utilizzati. Prevede infatti l’articolo in questione che «ove strettamente indispensabile per garantire il rispetto del crono-programma del progetto, [le autorità] provvedono all’adozione dei relativi atti mediante ordinanza (…) in deroga ad ogni disposizione di legge» (tranne che per le leggi penali, i principi generali e le leggi antimafia). Tradotto in italiano, ciò significa che si potrà intervenire in ogni settore con atti di emergenza che potranno liberamente (tranne in limitati casi) modificare, senza colpo ferire, atti del Parlamento e dei Consigli regionali.

Un fatto che a me pare senza precedenti, tanto più se si considera il presupposto di applicazione: «ove strettamente indispensabile per garantire il rispetto del crono-programma». Qualcuno pensa, con l’amministrazione che ci ritroviamo e la farraginosità dei procedimenti decisionali, che, in Italia, un tale presupposto non si verificherà sistematicamente? Ancora una volta dunque siamo di fronte alle difficoltà di un sistema decotto, che non è in grado di assicurare nessuna normalità, e può affidarsi solo alle doti taumaturgiche di un’emergenza permanente che tradisce, a dir poco, lo spirito del modello costituzionale. Ma la Costituzione non si cambia né si ha intenzione di cambiarla.
Anni fa la Corte intervenne per stigmatizzare l’iniziativa di un Presidente di regione che, nella veste di commissario straordinario, aveva adottato un provvedimento e lo aveva chiamato “legge” sostituendosi all’assemblea regionale.

La Corte (sent. 361/2010) reagì quasi con scherno, precisando: «La disciplina delle fonti primarie [è] caratterizzata nel nostro ordinamento dalla necessaria individuazione sia delle fonti, che degli organi titolari delle diverse funzioni legislative (…) In particolare, la disciplina delle deroghe alla normale attribuzione di potere legislativo alle sole assemblee legislative è oggetto di normative speciali ed espresse di rango costituzionale». Dopo quest’anno, quella decisione rischia di diventare un lontano ricordo.