Era, dunque, inevitabile scivolare sull’argomento che in Italia rappresenta, a partire dall’avvento della democrazia repubblicana, la mamma e il babbo di tutte le guerre: l’elezione del capo dello Stato. Primum movens da sempre di dossieraggi improvvisi, sovraesposizioni inconsulte o andamenti elusivi e lavorii sottotraccia di autocandidati un po’ âgée, la lunga rincorsa al Colle ha avuto un solo fil rouge nella dinamica complessa che ha portato allo scranno di Presidente dodici italiani: si è trattato di rincorse inutili. Perché tutto si è sempre risolto nelle ultime ore prima del voto che ha consacrato il nuovo capo dello Stato. E chi ha varcato il soglio è stato quasi sempre un outsider e non un capo politico. Spesso un presidente di una delle Camere (cinque volte su dodici a Montecitorio e una a Palazzo Madama. Non contiamo De Nicola, che fu presidente della Camera, ma nel 1920 e del Senato, ma nel 1951 e pure presidente della Consulta, ma nel 1956).

Due volte è diventato presidente una personalità proveniente dalla fucina di Bankitalia (Einaudi, Ciampi). Per quel che può valere, questa è la tradizione, consolidata nel corso di tredici tornate di elezioni. La differenza col passato, però, è data dal restringersi del bouquet dei papabili. Attenzione: non parliamo degli aspiranti, che continuano a riaffacciarsi pavlovianamente nell’agone, con un accumulo di acciacchi umanamente comprensibili, a causa dell’inesorabile affastellamento di settennati di inutile attesa. Parliamo di chi può effettivamente sperare di giocarsi qualche chance in una partita che si svolge in uno scenario inedito: un Parlamento che si appresta, già dal 2023, a non esistere più nella numerosità attuale di 945, perché già dopo il referendum costituzionale del settembre scorso è “politicamente” entrato nell’era del formato ridotto a 600. Il che, ovviamente, non pone nessun impedimento costituzionale alla legittimità dell’elezione del Presidente della Repubblica con l’attuale formazione dei “quasi mille”, ma che, forse, ne rafforzerebbe politicamente l’autorevolezza se questa elezione avvenisse con consensi così alti da mettere al riparo la figura del supremo garante dell’equilibrio costituzionale dal mutamento radicale, di lì ad un anno, della maggioranza politica.

Al dunque: chi è in grado di raccogliere oggi un voto dei grandi elettori quasi plebiscitario? Facciamo due nomi: Mattarella e Draghi. Si è tornato a parlare (l’argomento non è nuovissimo), anche da parte della dottrina, dell’applicabilità del “lodo Napolitano” al Presidente in carica (si veda su queste colonne l’interessante argomentazione portata da Guzzetta): la possibilità, in sostanza, di una rielezione “ a tempo”, per consentire l’avvicendamento con Draghi, il secondo autorevole candidato, non appena quest’ultimo avesse completato il suo impegnativo lavoro al governo del paese. In effetti Mattarella è personalità sicuramente in grado di raccogliere il consenso amplissimo delle forze politiche, oltre che del popolo italiano. Ma ci sono tre obiezioni che mettono in crisi questa strategia: la prima è il chiaro e reiterato diniego del Presidente in carica, che, non ha perso l’occasione di ricordare argomenti di peso giuridico (la spinta di Antonio Segni a costituzionalizzare il divieto di rinnovo del mandato presidenziale) per opporre, con lo stile sobrio che lo contraddistingue, il suo no al nuovo mandato. Ora, è vero che a quella carica non ci si candida ma si viene chiamati, ma è vero pure che la volontà del destinatario di quella chiamata deve avere anche il suo peso.

Oltretutto, e questa è la seconda obiezione, non è che l’idea di un mandato “a tempo”, per preparare la strada ad altri, rappresenti il massimo del galateo istituzionale: chi viene eletto a quella carica ci resta, punto e basta. Terza obiezione: se la strategia fosse quella di differire l’elezione di Draghi dal 2022 a dopo le elezioni politiche del 2023, risulterebbe solo un piissimo desiderio gettato nell’iperuranio della mutevole politica italiana: qualcuno è forse in grado di garantire che tra due anni o tre, con un parlamento ridotto di un terzo e più, con leggi elettorali ancora incognite e sentiment elettorale volatile, ci sarà ancora la propensione che si manifesta oggi per Draghi?

Allora? Allora Draghi al Colle dopo Mattarella, con il consenso che oggi raccoglie fra tutte le forze politiche, di maggioranza e di opposizione. Nota è l’obiezione: Draghi non avrà finito il suo lavoro di risanamento e rilancio del Paese e, comunque, i parlamentari in carica non rischieranno mai di far cadere governo e legislatura andando a casa un anno prima della scadenza naturale. Risponderei: e chi l’ha detto? Draghi, portatore di un patrimonio reputazionale importantissimo per il nostro paese, potrebbe dal Colle continuare a svolgere il suo ruolo di promotore degli interessi nazionali facendo conto sulla stessa vasta maggioranza che oggi lo sostiene, anzi, addirittura sugli stessi uomini di governo (di legislatura), per sottolineare il senso di continuità. Solo che, invece di un impegno da Primo Ministro con scadenza 2023, sarebbe al Quirinale per sette anni. Fino al 2029. Un buon affare per gli italiani.