Non lo hanno votato ieri alla Camera. Attendono un segnale, “una risposta chiara” pretende Conte, prima di giovedì quando il decreto Aiuti è atteso al voto dell’aula del Senato. Le prossime 72 ore sono lo spazio di un nuovo fragile accordo politico con i 5 Stelle per andare avanti ancora un po’. O quello di una crisi di governo pilotata in cui Draghi potrebbe trovarsi a guidare una nuova maggioranza senza i 5 Stelle. Ipotesi che ieri pomeriggio non era più lunare ma anzi probabile. Con tutti i rischi, per Draghi e per il Pd, di trovarsi alla guida e soci di un governo a trazione centrodestra. Il colloquio al Colle ieri sera tra il Presidente del Consiglio e il Presidente della Repubblica rientra in questo contesto. “Necessaria interlocuzione in un momento di fibrillazione politica” è il commento lapidario che esce da palazzo Chigi.

In ogni caso, questa è l’opinione più condivisa in Parlamento, nessuno, meno che mai i 5 Stelle, vedono possibile lo scioglimento delle Camere in piena estate – e che estate – e il voto in ottobre. Per due motivi soprattutto: negli annali della Repubblica non ci sono precedenti di urne autunnali; non c’è una forza politica, neppure Fratelli d’Italia, che in questo momento si vuole prendere la responsabilità di governo nel pieno di una tempesta perfetta in cui il Paese deve fronteggiare guerra, pandemia, inflazione e speculazione. Una rogna ingestibile e ad alto tasso di impopolarità persino per una leader in rampa di lancio come Giorgia Meloni. In questo quadro si sta consumando uno dei più irresponsabili tira e molla politici di una legislatura dove è già successo di tutto. Cominciamo dalle cose “in chiaro”, quelle palesi ed evidenti. Giovedì sera è stata votata la fiducia al decreto Aiuti e i 5 Stelle, dopo tre settimane di terremoto interno e ricatti più o meno discutibili (“abbiano presentato la lista delle nostre richieste, attendiamo risposte da Draghi” è il tormentone di Conte come se invece che in una maggioranza politica fosse ad un tavolo da poker apparecchiato da bluffatori), hanno votato compatti in linea con il governo.

Ieri era atteso il voto finale sul provvedimento. Ed è successo quello che era stato annunciato: i 5 Stelle non hanno votato. Dei 104 deputati iscritti al gruppo M5s Camera, solo Francesco Berti è rimasto in aula durante la votazione. Altri 85 hanno rispettato gli ordini di scuderia, non partecipando al voto. I rimanenti 18 deputati erano in missione. Attenzione a questo gruppo perché è qui che sta prendendo forma una nuova possibile scissione dal blocco 5 Stelle verso Ipf, il nuovo gruppo di Luigi Di Maio. Scorrendo i tabulati emerge poi che nella Lega, su 131 deputati, 41 non hanno partecipato mentre 15 erano in missione. Nel Pd, infine, su 97 deputati, 68 hanno preso parte al voto (13 in missione e 16 gli assenti). Va bene che è un caldissimo lunedì estivo e a Roma c’è la nube tossica da rifiuti incendiati, e però sono numeri alti che parlano di malessere e confusione. Un altro fatto in chiaro è l’intervento di Davide Crippa, capogruppo M5s alla Camera. “Ha parlato 10 minuti contro il Pd, addio alleanza” era il commento condiviso tra Pd e Ipf. Durissimo Crippa, uno dei più stimati parlamentari 5 Stelle, uno che ragiona con la propria testa e che Conte avrebbe voluto sostituire alla guida del gruppo Camera. Crippa ha condiviso l’impianto generale del decreto – 23 miliardi per famiglie ed imprese contro il caro energia e la speculazione – ma ha attaccato a testa bassa l’articolo che dà i pieni poteri al sindaco di Roma sul piano dei rifiuti. Tra cui c’è la realizzazione del termovalorizzatore.

Bocciato sotto tutti i punti di vista: nel risultato finale e nella tempistica. “Ci vorranno sei anni per realizzarlo, nel frattempo i cinghiali sono diventati animali domestici e i cumuli di spazzatura installazioni artistiche”. Non fa ridere per niente. Eppure intorno a lui, nei banchi 5 Stelle, ridevano. Occasione d’oro, per Crippa, per tirare fuori un’altra sua lancia contro il governo Draghi: “Non sta facendo nulla contro il caro energia e intanto le aziende del comparto registrano extraprofitti pari ad oltre 40 miliardi”. Su questo punto Crippa ha ragione e presto il premier potrebbe rispondere con un decreto ad hoc. Palazzo Chigi intende aspettare il 20 luglio quando Bruxelles presenterà il suo piano “price cap”. Italia Viva, Forza Italia, Azione, Ipf non hanno dubbi. “Il Movimento è fuori dal perimetro del governo” sintetizza il sottosegretario Teresa Bellanova (Iv). Silvio Berlusconi chiede subito a Draghi “una verifica di maggioranza”. Iolanda Di Stasio e Primo Di Nicola, capigruppo di Insieme per il futuro, firmano una nota: “C’è ancora chi pensa solo ai sondaggi e si nasconde dietro egoismi di partito. Così si porta il paese a sbattere”. Nel colloquio ieri sera al Quirinale Mattarella e Draghi hanno valutato tutte le ipotesi.

Siamo al riscaldamento prima del d-day di giovedì. La capigruppo di palazzo Madama deciderà stamani il timing della giornata. Il Senato deve convertire il decreto entro il 16 luglio e a palazzo Madama non è previsto il voto disgiunto. Quindi ci sono solo due possibilità: o i 5 Stelle votano il provvedimento oppure non lo votano. Scartata l’ipotesi che votino contro. Possono risultare assenti in blocco oppure uscire al momento del voto. Più facile questa seconda. In ogni caso è uno strappo. Certo, Draghi potrà contare la sua nuova maggioranza. Circa 190 voti, sommando Fi, Lega, Pd, Iv, Ipf, Autonomie e una decina del gruppo Misto dove ci sono Sel e altri senza gruppo ma che certo non vogliono rischiare la crisi di governo. Siamo ben oltre il magic number che è tra i 158 e i 160. Il Movimento 5 Stelle conta 62 senatori e tra questi ci sono i più agguerriti sostenitori del “leave”, cioè dell’uscita dalla maggioranza. Sarà interessante anche qui misurare la compattezza del gruppo. “Se i 5 Stelle non prenderanno parte al voto è chiaro che Draghi un minuto dopo sale al Quirinale. A quel punto deciderà con il presidente Mattarella la strada da seguire (l’ha già decisa nel colloquio di ieri sera, ndr). Certo, anche se continuerà ad avere una larga maggioranza, l’uscita dei 5 Stelle è un fatto politico di grande rilevanza” dice un senatore Pd che sembra già accarezzare la sopravvivenza del governo senza i 5 Stelle. “Chissà, forse riusciremo ad andare avanti più spediti su alcuni dossier e non tutti i mali verranno per nuocere”.

L’area che dice “avanti senza M5s e Conte” si sta allagando a vista d’occhio. E se un tempo Base riformista combatteva una battaglia di minoranza nel partito, adesso sta diventando la maggioranza. Soprattutto verrebbe “finalmente seppellita l’idea del campo largo”. Cosa che certamente non piace a Francesco Boccia e al ministro Andrea Orlando. Ed ecco che proprio dal ministro del lavoro può arrivare il ramoscello d’ulivo per tenere tutto unito. Almeno ancora un po’. Se il governo ha già accolto una serie di ordini del giorno per aggiustare l’ennesimo pasticcio del Superbonus edilizio da 110%, nelle prossime ore potrebbe infatti essere presentata la proposta di legge sul salario minimo. “Orlando la tiene nel cassetto” denunciava qualche giorno fa una nota deputata 5 Stelle. Qualche ritocco al Superbonus e i primi passi del salario minimo potrebbero far dire a Conte: “Avete visto? Abbiamo vinto e abbiamo fatto bene ad alzare la voce”. Fino al prossimo rilancio. Un gioco che Draghi non è disposto in alcun modo ad accettare. Perché se smette uno – diciamo i 5 Stelle – comincia subito l’altro, la Lega. Su una cosa si può azzardare seppur in mezzo a mille tensioni: per quanto “vittima” del giochino al rilancio di alcuni suoi azionisti, il governo e la legislatura andranno avanti. Senza accettare ricatti. Fino a scadenza naturale.

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Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.