È assolutamente evidente che Luigi Di Maio non poteva fare altro che uscire dal partito di Conte per provare a restare in politica. Di fronte alla dissoluzione inevitabile del M5s, gli conveniva senz’altro dissociarsi al più presto, ponendo fine a una convivenza stridente, per tentare di salvare almeno sé stesso dalla catastrofe grillina in corso. Ormai, infatti, la creatura politica di Grillo ha i giorni contati. Durerà al massimo fino alle prossime elezioni politiche, per poi crollare del tutto. Almeno sul piano del consenso popolare ed elettorale.

Come si sa, i 5s erano nati sull’onda della protesta e della disaffezione verso le forze politiche tradizionali. Spinti dalla voglia di “nuovo” e di “diverso” di una parte consistente dell’elettorato. Rimasta poi delusa dalla approssimazione e dall’incompetenza con cui gli eletti 5s hanno tentato di fare la loro “rivoluzione”. Fino a farsi prendere dall’opportunismo e dal trasformismo e sperimentare le alleanze più diverse. Beninteso, il declino dei 5s non significa che lo scontento e la disaffezione popolare si siano esauriti. È vero il contrario: il disagio popolare nei confronti della politica è tuttora diffusissimo. Di conseguenza, lo spazio per una forza politica di protesta, in Italia come in molti altri paesi europei, c’è ancora e anzi si è accresciuto. Ma non può essere occupato né da Conte né da Di Maio, che sono ormai leader screditati di fronte al loro (ex) pubblico. Conte gode tuttora di una vasta popolarità (Di Maio assai meno) conquistata all’epoca in cui era presidente del Consiglio, che è però arduo se non impossibile trasformare in voti alle elezioni, stante anche l’assenza di una rete territoriale adeguata. E, d’altro canto, è assai improbabile che Di Maio riesca a creare una forza politica degna di questo nome. Il suo destino è all’interno di qualche altra formazione.

Si parla al riguardo del centro: anche qui c’è un ampio spazio politico potenziale, che è tuttavia affollato da leader e personaggi del tutto separati e spesso litigiosi tra loro e che difficilmente possono dar vita a una formazione minimamente coesa e duratura. Ma che, al tempo stesso, qualunque forma prenda, può in futuro essere decisiva per la creazione di un Governo. Insomma, il centro è, per ora, costituito da un insieme di parlamentari che da soli contano assai poco, ma senza l’appoggio dei quali può essere difficile un domani costituire una maggioranza. Tuttavia è arduo fare previsioni, anche di qui a pochi mesi: la politica italiana è, infatti, ormai diventata un po’ il mondo dell’effimero, leader e partiti hanno per lo più vita breve. Dopo la fine dei partiti fondatori della Repubblica, Berlusconi è (stato) una eccezione. Anche lui ha avuto il suo successo iniziale sulla base della “novità” rispetto alle forze politiche tradizionali, trasformandosi ben presto in una sorta di grande camaleonte, capace di vincere le elezioni al tempo stesso nel nord industriale e nel sud assistenzialista, come aveva saputo fare solo la DC, che era una oligarchia sparsa sul territorio nazionale.

Mentre il Cavaliere ha fatto tutto da solo. Ma oggi la sovraesposizione consuma. Le grandi promesse mai realizzate disilludono gli elettori. I progetti di lunga durata non interessano i cittadini, che vivono come gli eletti nel tempo breve, e gli uni trascinano gli altri nella caduta, come i ciechi nel quadro di Bruegel. Promesse, inganni, illusioni e delusioni, sembrano il teatro su cui si consuma il più recente ordine democratico. Ma, per fortuna del Paese, dietro il palcoscenico del teatro c’è da più di un anno un governo che funziona, che gestisce l’economia con competenza, che negozia con le istituzioni europee dove il nostro primo ministro è ben noto e molto stimato. Mario Draghi è un esperto prestato alla politica o piuttosto al buon governo del paese, con competenze e preoccupazioni piuttosto assenti fra gli eletti, e questa dovrebbe essere una fonte di preoccupazione. Infatti, se la democrazia italiana, qui nel senso ristretto di governo eletto e responsabile, non è in grado di produrre leader che vengono dal mondo politico e maggioranze stabili, visto che non c’è alternativa a questo sistema per quanto riguarda la selezione dei rappresentanti, allora il Paese si scontra con una difficoltà grave.

Nelle città italiane del pre-Rinascimento le lotte intestine fra le fazioni spinsero i cittadini a far ricorso a podestà stranieri – soggetti si direbbe oggi super partes. Si protesta, tutti protestano per il declino della politica, cioè dei politici, ma questo dipende dalla loro qualità, dal loro guardare per lo più al loro interesse di parte e dal ricorso spesso alla demagogia. Ad inseguire l’opinione pubblica per ottenerne voti. Nessun tentativo di guidarla o orientarla con chiare posizioni circa il bene comune e un’ottica che vada al di là del breve periodo e degli interessi immediati. I valori di destra e di sinistra sono in parte consunti e comunque offuscati. Si capisce che non funziona più l’inganno dell’“uno vale uno”, ma non si ha il coraggio di fare l’elogio della meritocrazia e della competenza, che non piacciono né alla vecchia sinistra e neppure alla destra nazional popolare.

Non che l’Italia sia un caso isolato. Non è vero che l’erba del vicino è sempre più verde. Se si esclude il caso della Germania, i problemi che vive la politica italiana si ritrovano in forme diverse e in sistemi politico-costituzionali diversi dal nostro in molte delle tradizionali democrazie, dagli Stati Uniti, alla Gran Bretagna, alla Francia. Quest’ultimo paese, per molti versi diverso dal nostro, è entrato in una fase caratterizzata da una simile frammentazione partitica – nell’Assemblée national sono presenti oggi più di 10 partiti – e una comparabile difficoltà a formare un esecutivo. Se infatti né il presidente (Macron) né il primo ministro (come accadeva al tempo del settennato presidenziale in caso di coabitazione) hanno una maggioranza parlamentare il sistema rischia di bloccarsi e il governo del paese può finire in una paralisi. Chissà se il presidente Macron non sarà obbligato a chiamare Matignon, il governatore della Banca di Francia, o qualche economista di chiara fama (non pensiamo a Picketty) per evitare un collasso dell’economia nazionale.

Perché oggi soprattutto in Europa, dopo la pandemia e ora il conflitto in Ucraina e l’inflazione che cresce è il governo dell’economia dei paesi membri dell’Unione Europea la priorità assoluta, quella che in particolare richiede competenze e sguardo lungo per evitare il peggio. La politique politicienne che rincorre effimere vittorie e fa pensare a baruffe chiozzotte non ci può tirar fuori dalle difficoltà del presente. Spiace dirlo per i politici che non sono stati e non sembrano all’altezza dei compiti da assumersi, ma i governi senza colore politico, sono forse la sola chance per evitare di portare la nave del paese e il titolare del suo gubernaculum a infrangersi contro gli scogli.

Renato Mannheimer, Pasquale Pasquino

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