La guerra ha prodotto onde sismiche nel globo, secondo il Fondo monetario internazionale che ha rivisto al ribasso le stime – rilasciate solo circa tre mesi fa – dei principali indicatori economici a livello mondiale, europeo e nazionale. La crescita del Pil mondiale viene prevista, per l’anno, nel 3,6 per cento, 0,8 punti percentuali in meno della precedente stima. Il Pil dell’Ucraina subirà un crollo del 35 per cento, mentre quello della Russia registrerà una caduta dell’8,5 per cento. Nelle economie avanzate l’inflazione si attesterà al 5,7 per cento. Un aumento del 2,3 per cento e dell’1,7, rispettivamente per l’anno in corso e per il 2023, riguarderà l’Italia: una revisione al ribasso, per l’anno, dell’1,5 per cento, abbastanza vicina a quella tedesca dell’1,7 sicché si può dire che Italia e Germania sono i due Paesi maggiormente penalizzati dalla guerra.

Nel Documento di economia e Finanza, la crescita per l’anno viene stimata nel 3,1 per cento, mentre nello scorso ottobre era prevista addirittura nel 4,7 per cento. Il contesto dell’area dell’euro segnala una revisione al ribasso del Prodotto dell’1,1 per cento. Naturalmente, influisce il terremoto del conflitto bellico, ma contribuiscono a questo quadro preoccupante – aggravato dalla non difficile ipotesi che si debbano formulare in quest’anno ulteriori stime negative – anche gli strascichi della crisi finanziaria soprattutto in Europa, la pandemia, l’inflazione, come effetto e causa e i timori di una più che possibile carestia, alla quale sarà opportuno prepararsi con tutte le possibili misure preventive di una situazione della quale stiamo cominciando a vedere i primi segnali. Le previsioni del Fondo non sono il “verbo”: tuttavia esse sono risultate in passato accurate nel complesso. Oggi sono precedute e accompagnate da stime di altri previsori che vanno nella stessa direzione. Del resto, in questa fase, con il quadro globale e nazionale che osserviamo, non è difficile esercitarsi in stime della specie.

Il punctum dolens riguarda quali conseguenze ne traiamo, a livello europeo e italiano. Insomma, alla luce di queste stime, si può sostenere che le misure di politica economica in corso di adozione e quelle di più ampia prospettiva siano adeguate? Certamente, si deve tener presente che la stessa stima del deficit e del debito in relazione al Pil non potrà che peggiorare se quest’ultimo non coincide più con le previsioni del Def. Ma da ciò non può automaticamente trarsi la conferma che non si può aumentare la quantità di risorse per un’azione espansiva. Qualche commentatore, esaminando le previsioni dell’inflazione in Italia – che a marzo è pari al 6,5 per cento con riferimento ai dodici mesi precedenti – ed essendo scettico su di un calo al 2,5 per cento nel 2023, dopo avere rilevato la resistenza delle banche centrali ad aumentare significativamente i tassi di riferimento, ipotizza una situazione di “stagflazione”. Alcuni pensano, come reazione, a riproporre una seria spending review e a incidere sugli extra-profitti derivanti dallo straordinario aumento dei prezzi del gas – a proposito del quale il Governo Draghi rilancia la proposta della fissazione di un prezzo limite a livello europeo – e del petrolio.

In effetti, si sono determinate le condizioni perché non si considerino le decisioni da assumere dal Governo come momenti di passaggio in vista di una situazione diversa nella quale agire più profondamente. È ora il momento di agire o comunque di preparare un’azione adeguata senza temere lo scostamento di bilancio, naturalmente valutando adeguatamente tutte le misure che lo motivano. Certo, lo “scostamento” non è un prius, ma un posterius rispetto ai provvedimenti di sostegno, di aiuto e di propulsione da adottare che dovrebbero essere progettati organicamente, tali comunque da poter essere ridimensionati se decollasse, come sarebbe doveroso, un’iniziativa europea sullo stile del Next Generation Eu, di cui si avverte il bisogno. Non sarebbe un bis in idem, ma una fondamentale operazione diversa in un contesto totalmente mutato rispetto a quello del Recovery Plan.

Certamente non si potrebbe attendere passivamente le decisioni dell’Unione e assistere alla consueta non corrispondenza tra le analisi e le conseguenze da trarre da esse. Grande impegno nell’approfondire e stimare le cause, debolezza speciale nell’adottare le necessarie terapie. Per di più, non si potrà fare affidamento a lungo sull’accennata renitenza delle Banche centrali (ammesso che sia tale) ad aumentare i tassi. Anzi, dalla Bce, per esempio, non sembra che in materia di riduzione delle politiche monetarie accomodanti vengano segnali di contrarietà. Discende da ciò la necessità di un raccordo tra politiche economiche e di finanza pubblica e politica monetaria, pur nel rispetto della reciproca autonomia, su cui abbiamo insistito altre volte. Se non ora, quando?