In un recente editoriale, il Financial Times ha sostenuto con una semplicità disarmante che “Trump ha un prezzo, nel senso non-corrotto del termine.”
Con l’Europa che si contorce in scenari apocalittici che potrebbero aprirsi fra meno di un anno con l’insediamento della prossima amministrazione americana, la tesi è affascinante e provocatoria: la parabola politica e manageriale di Trump, con tutte le sue idiosincrasie, è perfettamente razionale. Il filo rosso: la logica binaria della transazione. Si vince e si perde, e soprattutto si vince, se necessario bullizzando le controparti. Una volta identificato il prezzo che può consentire a Trump di dichiarare vittoria, il meccanismo diventa prevedibile.

L’esempio più lampante di questa logica è la richiesta martellante e in realtà bipartisan nel panorama americano di onorare l’impegno preso in sede NATO di investire il famigerato 2% del PIL nella difesa. Una richiesta rispetto alla quale spesso noi europei accampiamo scuse poco attendibili. Qui Trump si è solo limitato a portare la transazione alle estreme conseguenze: chi non rispetta i patti può aspettarsi lo stesso trattamento da Washington.
Alcuni europei sembrano cominciare a capire. Più di recente Radek Sikorski, l’autorevole Ministro degli Esteri polacco, paese convintamente atlantista. Sikorski non solo si è affrettato a chiarire al pubblico statunitense che la Polonia già spende più del 3% nella difesa ed è disposta a raddoppiare in caso di necessità. Ha anche puntualizzato che l’Europa dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina ha ordinato armamenti di manifattura americana quantificabili in 90 miliardi di dollari. L’arte del “deal”, né più né meno.

Ci sono tre obiezioni possibili a questo ragionamento. La più ovvia è che in realtà Trump sia completamente irrazionale. L’imprevedibilità è una costante della sua condotta politica e difficile da misurare. Dalla Cina alla Corea del Nord per non parlare della Russia, quello che tutti temiamo è un po’ quanto l’ex primo ministro australiano Turnbull ha sostenuto qualche giorno fa: che di fronte a Putin, Trump si trasformi in un dodicenne in visita al liceo.
La seconda obiezione riguarda la natura dell’alleanza transatlantica. Ciò che ci unisce agli Stati Uniti è un impianto politico, civico e morale che prescinde dalla bilancia dei pagamenti. Dopo tutto, l’unica volta che è stato invocato l’articolo 5 del Patto Atlantico (quello dove un attacco ad un paese NATO è un attacco a tutti gli altri) è stato su richiesta degli Stati Uniti dopo l’11 settembre. E come lo stesso Sikorski ha fatto notare non senza una vena polemica, gli europei non hanno poi mandato il conto alla Casa Bianca dopo aver inviato truppe in Afghanistan e Iraq.

È innegabile però che l’alleanza sia da tempo attraversata da sconquassi molto più profondi della volatilità di Trump. Gli Stati Uniti sono una potenza sempre meno “europea”, almeno dalla presidenza del secondo Bush. In quel caso il teatro mediorientale prese il sopravvento, ma anche Obama con il cosiddetto “pivot” verso l’Asia inaugurò un cambio di rotta strategico, determinato da un imperativo economico e demografico che potrà solo acuirsi nei decenni a venire. L’America, come il mondo, stanno diventando post-occidentali.
La presidenza di Biden da questo punto di vista è un’anomalia, dettata dalle ragioni anagrafiche di un politico che si è formato durante la Guerra Fredda e dalla contingenza dell’invasione russa. Possiamo sperare in una sua vittoria su Trump, specialmente per quanto concerne l’impegno americano in Ucraina. Ma dobbiamo abituarci all’idea di un’America post-europea e prepararci a molti anni di solitudine (o autonomia strategica, come la chiamano i francesi) specialmente per quanto riguarda la nostra difesa.

La terza obiezione riguarda l’impianto ideologico con il quale Trump ha trasformato la narrazione americana. Una virata che investe evidentemente anche la politica europea ed italiana in particolare. Qui torna in parte la logica transattiva (“America First”) che si fonde però a quella dell’estrema destra xenofoba e autoritaria. La crescita di tutti i partiti di estrema destra europea dall’Afd in Germania a Vox in Spagna si è giovata in parte anche dell’ascesa di Trump. L’Internazionale nazionalista sembrerà un ossimoro (purtroppo l’attributo populista non sembra voler dire più nulla di preciso). Ma l’unità d’intenti di questi movimenti è davanti agli occhi di tutti. E gli europei qui farebbero bene a seguire il vecchio adagio dello scrittore beat William Burroughs: “il paranoico è colui che capisce un po’ di ciò che sta accadendo.”
L’Internazionale nazionalista è ovviamente uno spettro che si aggira anche nei corridoi della nostra politica. La linea atlantista ed europeista della nostra Presidente del Consiglio ha ricevuto plausi meritati sia in Italia che all’estero. Ma il vero dilemma si porrà se e quando questa linea comincerà a vacillare al canto delle sirene identitarie di Trump. Il governo Meloni può provare a perseguire la tattica dei due forni con la quale per ora sta mediando fra istituzioni euro-atlantiche e l’Ungheria di Orban. Spero ci sia consapevolezza che accendere due forni con l’America di Trump avrebbe un prezzo reputazionale e strategico ben più alto.

Fabrizio Tassinari

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