Cosa succederà dopo il 22 settembre?
Elezioni regionali, rischio ecatombe per il Pd

«E siamo solo al 2 settembre, chissà che succede da qui al 22» è la battuta amarissima che rimbalza da un deputato Pd all’altro nel cortile di Montecitorio nell’attesa sconfortata di un voto di fiducia, sul decreto Covid-emergenza, che non ci doveva essere e dopo tre settimane di vacanza ha ripreso il filo della storia esattamente al punto in cui era stato lasciato il 5 agosto: 5 Stelle in ordine sparso, Pd che insegue per coprire i pasticci dei soci di governo, Iv ago della bilancia che vigila, avverte ma non rompe. Il 22 settembre è quando tutto quanto detto in questi mesi lascerà la forma liquida delle parole e acquisterà quella solida dei numeri: quante regioni al centrodestra; quante al centrosinistra; vittoria del Sì o del No e con quanti voti; le performance delle singole liste e se e quanto le scissioni nella maggioranza peseranno su vittorie e sconfitte.
Su questi e altri numeri che usciranno dall’election day saranno misurate la tenuta del governo, del premier Conte e dei singoli partiti, a destra come a sinistra, certamente nei 5 Stelle dove ormai la mano destra non sa più neppure cosa fa la sinistra. Il golpe di martedì contro Conte e l’emendamento 007, a cui palazzo Chigi ha dovuto rispondere con la fiducia, ne è stata la prova plastica. Ora però, se prendiamo tutte le domande e ciascuna diventa una “partita”, viene fuori che i rischi maggiori li sta correndo il Pd. E la sua segreteria. E che alla fine il cerino rischia di restare in mano proprio a Nicola Zingaretti. «Possiamo dire che non ne abbiamo azzeccata mezza… un filotto così neppure se ci si metteva d’impegno» commenta amaro un deputato Pd del sud accompagnandosi con un colorito gesto delle mani.
Il referendum, ad esempio. Se vince il Sì, la vittoria anche se risicata e con pochi elettori sarà ad uso e consumo del Movimento e di Luigi di Maio. Sarà l’ex capo politico che potrà issare la bandiera dell’anticasta e del taglio dei privilegi. “Detto e fatto” sembra già di vederlo Giggino. Il Pd è lacerato e diviso tra il Sì, sempre meno, e il No, sempre di più. Zingaretti non riuscirà in alcun modo a mettersi addosso la medaglia delle riforme perché quella del taglio dei parlamentari è una bandiera grillina al 100%. E il “cantiere delle riforme che si rimette in cammino in nome del riformismo” è un pannicello caldo che non scalda il cuore. Ieri la capigruppo della Camera ha calendarizzato in aula per il 28 settembre la legge elettorale. Gli altri correttivi costituzionali (dl Fornaro) (tra cui voto ai diciotteni, riduzione dei delegati regionali per il voto del Capo dello Stato) muovono i loro passi tra Camera e Senato. «Siamo soddisfatti, il patto per le riforme tiene» ha esultato il capogruppo Delrio. “Adesso possiamo votare convintamente Sì” è il messaggio del Nazareno. Peccato che quelli delle prossime settimane sono passaggi interlocutori e, soprattutto, tutti successivi al 22 settembre. Quando, appunto, saranno messi in fila i numeri veri. E saranno fatti i conti. Definire tutto questo una vittoria è quanto meno coraggioso. Più che altro ci credono in pochi. Fino a che punto sarà chiaro lunedì 7 settembre nella Direzione finalmente convocata. Quelli del No, fronte sempre più largo anche nel Pd, scrollano la testa: “Siamo sempre noi ad inseguire, non va bene”.
Anche nella partita regionali è alto il rischio che il cerino resti in mano a Zingaretti. L’accordo sulle alleanze è fallito nonostante Rousseau, gli appelli di Conte, di Di Maio (veri o di facciata?). L’asticella della vittoria per il Pd è mobile. C’è chi confida nel tre pari, “perdiamo solo le Marche” e solo in questo caso l’attuale segreteria potrà avere un futuro. Ma c’è chi teme il 5 a 1: “Tenere solo la Campania sarebbe la catastrofe, la Toscana è in bilico più di quel che sembra, i sondaggi danno Giani in vantaggio di un solo punto, troppo poco”. Anche il 4 a 2 per il centrodestra, cioè la perdita di Puglia e Marche, sarebbe una sconfitta. A ruota seguirebbero i regolamenti di conti nel centrosinistra e nei 5 Stelle.
La Liguria è già adesso una sconfitta. Il capo di imputazione nei confronti di Zingaretti sarebbe chiaro: essersi appiattito sui 5 Stelle, averli inseguiti senza aver ottenuto nulla in cambio. La lettera pubblicata martedì su Repubblica parlava soprattutto al Pd, un richiamo alle responsabilità di ciascuno, dal referendum alle regionali. Parlava anche a Franceschini, quella lettera, al capo delegazione politico che si è inabissato da un paio di mesi, non fa sentire la sua voce e non prende posizione. Come Conte, del resto. Stai a vedere che hanno entrambi già deciso a chi deve restare il cerino in mano.
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