L’Ilva sembra avvitata verso una crisi senza uscita, con l’accelerazione delle contraddizioni e delle difficoltà che hanno accompagnato l’azienda a partire dal commissariamento nel giugno 2013. Quando all’inizio del 2012 il presidente della Regione Puglia e i parlamentari locali avevano chiesto a Mario Monti un intervento del governo, avevamo individuato un percorso sia per la riqualificazione degli impianti in continuità produttiva, sia per il risanamento ambientale che del territorio. La chiusura dello stabilimento e la desertificazione trentennale del territorio, come nel caso di Bagnoli, furono escluse. Ricordo i fatti.

Il 26 luglio 2012, insieme al Ministro Fabrizio Barca e al vice Ministro Claudio de Vincenti, ho sottoscritto con il presidente della Regione Niki Vendola, con gli Enti Locali e il Porto un protocollo per il risanamento ambientale e la riqualificazione del territorio di Taranto. Poi con il decreto legge 129/2012 erano stati individuati gli interventi “urgenti”, da attuare entro la fine del 2017, finanziati con 336 milioni di euro. Il 26 ottobre 2012, sulla base delle perizie trasmesse dalla Procura della Repubblica di Taranto e dopo un serrato confronto con Bruno Ferrante, nominato presidente dell’Ilva, ho rilasciato la nuova Autorizzazione Integrata Ambientale (AIA). L’AIA prevedeva l’impiego da subito delle migliori tecnologie disponibili per la produzione di acciaio, che sarebbero poi diventate vincolanti in Europa nel 2016. Gli interventi di risanamento ambientale dovevano essere conclusi entro il dicembre 2015 e richiedevano investimenti da parte di Ilva per almeno 3 miliardi.

Il 15 novembre del 2012 Ilva aveva accettato di realizzare tutti gli interventi previsti dal programma di risanamento degli impianti, in pieno accordo con l’AIA e le direttive europee. Il 26 novembre del 2012 il Gip di Taranto aveva sequestrato come “corpo del reato” i prodotti finiti già pronti per la vendita, per un valore di 1 miliardo di euro, che l’azienda aveva destinato ai primi investimenti per il programma di risanamento, come comunicato da Bruno Ferrante allo stesso Gip. In questo modo le disposizioni dell’AIA e il piano di risanamento erano stati bloccati sul nascere. Per sbloccare il sequestro e consentire continuità produttiva e risanamento ambientale il governo era intervenuto il 3 dicembre 2012 con un decreto legge, approvato quasi all’unanimità dal Parlamento il 24 dicembre, con la legge 231. Ma la Procura della Repubblica di Taranto e il Gip avevano sollevato eccezioni di incostituzionalità e bloccato l’applicazione della legge. Il 9 aprile 2013 la Corte Costituzionale aveva respinto le eccezioni, tuttavia il Gip ha continuato a disapplicare la legge fino all’insediamento del nuovo Governo.

La sequenza dei fatti tra novembre 2012 e la fine di aprile 2013 ha determinato ritardi nell’avvio del piano di risanamento, a fronte dei quali Ilva – come prevede la legge – aveva richiesto modifiche del cronoprogramma ferma restando la fine del 2015 per la conclusione degli interventi previsti dall’AIA. Ma, appena insediato il nuovo Governo ha comunicato all’Ilva che la motivazione “formale” per il commissariamento dell’impresa nel giugno 2013, erano stati i ritardi. Il 16 luglio 2013, nel corso di una audizione al Senato, avevo rappresentato le motivazioni tecniche e giuridiche contrarie al commissariamento. Senza esito. Nelle motivazioni del Governo, il commissariamento aveva l’obiettivo di accelerare i tempi del risanamento ambientale e rafforzare la competitività dell’Ilva. I risultati di questa operazione si sono rivelati disastrosi sia dal punto di vista ambientale che economico.

Gli interventi di risanamento ambientale e riqualificazione degli impianti, sono stati rinviati più volte fino alla fine del 2023. I ritardi, pretesto del commissariamento, sono stati moltiplicati per anni. Il silenzio su tutto questo è semplicemente scandaloso. Va poi detto che se fosse stata attuata l’AIA nei tempi previsti non avremmo avuto, negli ultimi cinque anni, le ripetute nubi di pulviscolo che inquinano Taranto e che la concentrazione di inquinanti nelle emissioni sarebbe stata drasticamente ridotta ben oltre i limiti di legge.

Se si guarda ai risultati economici, Svimez ha stimato che – solo per la ridotta esportazione di prodotti – tra il 2013 e il 2019 Ilva ha perso oltre 10 miliardi, perdendo mercati nel momento in cui era necessario rafforzare la sua competitività, nel quadro di una crescente crisi dell’acciaio europea e mondiale. Mentre gli interventi “urgenti” per il risanamento del territorio, che dovevano essere completati entro il 2017, sono ancora in corso e comunque gli effetti programmati e attesi non sono evidenti.  Se questi sono i risultati, perché l’Ilva è stata commissariata? E perché non sono stati realizzati gli interventi urgenti per il risanamento del territorio, a partire dal quartiere Tamburi
Sarebbe ora di guardare con trasparenza agli eventi tra il maggio 2013 e la cessione di Ilva ad Arcelor Mittal. Perché se la priorità e l’urgenza erano il risanamento ambientale e la riqualificazione, i conti non tornano.

Venendo ad oggi, suppongo che nel 2018 Arcelor Mittal fosse consapevole della complessità della situazione, ma la “trappola” dell’immunità scattata un anno dopo ha scoperchiato la pentola delle contraddizioni e delle ipocrisie che hanno accompagnato prima il commissariamento e poi l’affidamento di Ilva ad Arcelor Mittal. A questo proposito è illuminante l’intervista rilasciata al Foglio dal sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Mario Turco il 24 ottobre 2019: ‹‹Constato che in un momento in cui il mercato dell’acciaio è in forte crisi, Mittal arriva a Taranto e pianifica un investimento così oneroso, su degli impianti talmente vecchi che andrebbero chiusi e rifondati. Il sospetto è che Mittal voglia evitare che quello stabilimento venga rilevato da suoi concorrenti di mercato. Bisogna essere onesti e riconoscere che, in ogni caso, i 15 mila dipendenti dell’Ilva non tornerebbero più. Al massimo, con la nuova gestione, si arriverebbe a 5 mila occupati››.

In un “paese normale” governo e azienda avrebbero dovuto concordare senza margini di incertezza il percorso della riqualificazione industriale e ambientale del sito nel pieno della crisi europea dell’acciaio e a fronte di una prevedibile crescente conflittualità sociale ed ambientale. Oppure, in modo trasparente, il governo, sulla base delle valutazioni di Mario Turco, avrebbe dovuto assumersi la responsabilità della chiusura dell’Ilva, invece ha preferito il conflitto nelle sedi politica, amministrativa e giudiziaria, ovvero il percorso ambiguo e tutto italico già sperimentato per la decrescita infelice e insostenibile del nostro Paese (come accaduto con la Tav, il Tap, l’Alta velocità o i rifiuti). Il Covid ha fatto il resto, aggravando ulteriormente il deficit di competitività dell’Ilva nei confronti delle altre imprese europee.

Oggi si cerca di esorcizzare la crisi dell’azienda dopo l’entrata in gioco di Cassa Depositi e Prestiti, con dichiarazioni impegnative sulla futura trasformazione dello stabilimento in un’acciaieria verde. Serve un progetto industriale adesso, perché i mercati non aspettano i tempi e le modalità tortuose della politica italiana, e Ilva continua a perdere. È stravagante immaginare il futuro dell’Ilva senza gestire il presente, mentre continuano l’inquinamento ambientale e l’erosione dei posti di lavoro. Se si vuole assicurare un margine di possibilità alla ripresa dell’Ilva, il piano industriale deve completare il piano di risanamento ambientale, in continuità con le attività produttive dell’area a caldo. Queste sono le disposizioni dell’AIA ancora in vigore e questa deve essere la prima priorità dell’eventuale partecipazione di Cdp.

È necessario poi individuare il percorso e i tempi per la decarbonizzazione della produzione dell’acciaio, opzione obbligata per il futuro dell’azienda, partendo da quello che si può fare subito fino alla soluzione “finale” dell’utilizzazione dell’idrogeno. Questo percorso non è alternativo all’AIA, ma ne è la continuazione. Il primo passo per la decarbonizzazione, sulla base dell’esperienza già consolidata nello stabilimento VoestAlpine di Linz considerato un “campione della green economy”, può essere l’impiego delle plastiche per la sostituzione parziale del coke. Il fornitore di VoestAlpine è il consorzio italiano per la raccolta delle plastiche Corepla. Questa soluzione richiede meno di un anno.

Il secondo passo è l’impiego del gas naturale per la sostituzione parziale e progressiva del carbone e del coke metallurgico. Il vincolo è costituito dal costo del gas naturale. Ma il problema potrebbe essere risolto attraverso la destinazione all’Ilva di una quota (3,5 miliardi di metri cubi) del gas trasferito dal Tap in Puglia sulla base di un contratto di lungo termine a prezzo predeterminato. In ogni caso è necessario un piano dettagliato, accompagnato da un programma di investimenti e da misure fiscali definite e stabili. In questo quadro è auspicabile, oltrechè giustificato, l’intervento di Cdp.

Se ci fosse già questo piano, sarebbero necessari almeno tre-cinque anni di lavoro. Ma il piano non c’è.
Il terzo passo riguarda l’impiego dell’idrogeno verde per la completa decarbonizzazione della produzione di acciaio. Ha ragione il Ministro Patuanelli quando ricorda che l’introduzione dell’idrogeno è coerente con il Green Deal europeo e può ricevere finanziamenti europei anche nell’ambito del Recovery Fund. Ma qual è la dimensione degli investimenti necessari? Quale sarebbe l’eventuale cofinanziamento europeo? Quali sono i tempi per l’acciaieria a idrogeno? Secondo una stima preliminare sarebbe necessario assicurare all’Ilva una fornitura continua di elettricità prodotta da fonti rinnovabili (circa 3.000 MW) con un numero adeguato di impianti di elettrolisi dell’acqua (alcune migliaia) per la produzione di idrogeno verde. Un progetto complesso e impegnativo, certamente attuabile nei tempi brevi necessari per assicurare la continuità produttiva dello stabilimento tarantino.

Forse, richiamando ancora una volta l’esperienza di VoestAlpine, si potrebbe realisticamente partire con un progetto dimostrativo: a Linz è stata avviata la realizzazione di un impianto pilota da 6 MW con un cofinanziamento europeo di 18 milioni di euro. Ovviamente un progetto dimostrativo di questa taglia è un investimento sul futuro, non certamente la soluzione nel breve periodo.

Insomma, per la ripartenza si possono realisticamente individuare quattro linee di azione in continuazione e progressione tra di loro: attuazione rapida del piano di risanamento stabilito da AIA nel 2012, impiego della plastica come agente riducente in sostituzione del coke nel giro di un anno, utilizzo del gas naturale per la progressiva trasformazione dell’area a caldo e sperimentazione della produzione e dell’impiego di idrogeno “verde”. Questo percorso è ben incardinato nel Green Deal europeo e coniuga crescita, innovazione e protezione dell’ambiente. Tuttavia senza le azioni urgenti per assicurare la continuità produttiva e il risanamento ambientale dell’area a caldo, la china della decrescita infelice è inevitabile.