Quando si parla di Ilva pubblica, spesso si dimentica che la situazione in cui oggi ci troviamo è frutto di quella gestione che per troppi anni ha assecondato quel sottobosco di connivenze, corruzione, inquinamento, che ha condotto la più grande acciaieria d’Europa all’attuale situazione di crisi che conosciamo. Il cortocircuito politico e giudiziario ha prodotto un disastro che oggi rischiano di pagare solo i lavoratori, i cittadini di Taranto e l’ambiente.

Rispetto alla gestione commissariale, cioè pubblica, che ha guidato Ilva negli anni che si sono succeduti dal 2012, da quando cioè, il gip Patrizia Todisco firmò il provvedimento di sequestro senza facoltà d’uso degli impianti, abbiamo sempre mantenuto un atteggiamento critico ma senza pregiudizi. La speranza era che lo Stato, attraverso i Commissari, sarebbe stato più attento alle necessità dell’ambiente oltre che della sicurezza, dei lavoratori e dei cittadini di Taranto. Speranze vanificate dai fatti. Infatti proprio lo Stato tramite i suoi commissari ha disatteso il Piano ambientale e industriale che, anche grazie alla trattativa sindacale, avrebbero finalmente reso il sito sostenibile.

In realtà gli anni del commissariamento sono stati tutto l’opposto di ciò che dovevano essere: sono aumentati gli infortuni (purtroppo anche mortali), non si sono fatti investimenti sugli impianti e sulle manutenzioni, venivano rifiutate le commesse, non si partecipava alle gare – come per la Snam – e peggio; si ritardavano le opere previste dall’Aia, tanto che sono stati necessari ben 12 decreti per rinviare l’attuazione delle prescrizioni della stessa.  Di contro, questi ritardi sono stati contemperati con la riduzione della produzione, unico motivo per cui Ilva ha dimezzato insieme all’acciaio anche le emissioni inquinanti. Ma a questo è seguito un calo dell’occupazione, con il ricorso frequente agli ammortizzatori sociali, strumento che con il passaggio dal pubblico al privato si è trasformato in una serie di esuberi, dovendo quest’ultimo tagliare le perdite fisse.

Anche sulla questione giudiziaria dell’Altoforno 2, sul quale si è consumato l’episodio che ha causato la morte dell’operaio Alessandro Morricella il 12 giugno del 2015, le opere di adeguamento derivanti dalle prescrizioni della Procura per la messa in sicurezza dell’altoforno erano state imposte nel periodo di gestione commissariale, 4 lunghi anni in cui non è stato fatto nulla e che ci hanno portato vicinissimi al rischio reale di chiusura totale della fabbrica. È di ieri la notizia del ricorso al Tar perso dagli stessi commissari, che addirittura in contrasto con il ministero dell’Ambiente e con l’Arpa, tentavano di omettere i controlli ambientali necessari a qualunque area Sin, cioè di interesse nazionale. Follia! Per queste ragioni, valutando con occhio sereno e libero da pregiudizi, la necessità dello “scudo penale” del quale tra l’altro godevano gli stessi commissari, è una delle condizioni necessarie, per chiunque voglia investire nel sito.

Lo scontro tra le procure di Taranto e Milano, dopo la rimozione dello scudo penale ad ArcelorMittal, dopo che la stessa aveva sottoscritto con noi e il governo Conte1 un accordo che metteva in sicurezza l’occupazione e rilanciava il sito sul piano ambientale e industriale resta inevitabile in un clima dove l’unico comun denominatore è il continuo scarico di responsabilità. Allo stato attuale tra commissari e Arcelor Mittal si sta consumando un confronto di amore e odio apparente, dove la Regione fa la comparsa di tanto in tanto. E se da un lato ci si sfida a suon di carte bollate, dall’altro si eccede in sorrisi e abbracci, si intavola una trattativa si fanno dichiarazioni di apertura, salvo però ritirare il proprio “armamentario giudiziale”. Una “commedia delle parti” rischiosa all’interno della quale lavoratori, sindacato e cittadini di Taranto sono ridotti dal governo e dall’azienda a essere spettatori di un triste teatrino.